Esiste una parte d’Asia che pochi conoscono e che, a stento, riescono a collocare nelle mappe geografiche. Un Asia con paesaggi che sembrano usciti da un quadro impressionista, con montagne imponenti, steppe sconfinate e aspri deserti; con città, abitate da un ricco mosaico di popoli, dove storia e leggenda si intrecciano, Il Turkestan, “terra dei turchi”, per 2000 anni è stato un punto di interscambio tra Oriente e Occidente. L¹Asia Centrale ne era il cuore e la Via della Seta la attraversava come una sua arteria.
Gli ultimi cacciatori con il falcone
La preparazione del viaggio mi impegna per più di un anno. Difatti per visitare l¹Asia Centrale occorrono visti, permessi e lettere d’invito sia dalle autorità centrali sia di quelle locali.
Il tutto farà si che fino all¹ultimo, l’itinerario attraverso il Turkestan, sarà per me come un irraggiungibile miraggio sempre più destinato a non realizzarsi.
Finalmente, dopo un’ interminabile corsa ad ostacoli contro la burocrazia, parto. All’aeroporto di Almaty l’avventura inizia. Un veloce colpo d¹occhio alla cartina e, per un attimo, una sensazione di vertigine mi assale. Mille domande mi passano per la mente. Forse, l¹allenamento conseguito durante l’inverno, non mi basterà per coprire il percorso di circa 2000 chilometri con una dozzina di passi sopra i quattromila metri di altitudine. Ma non sarà nè la fatica, nè la burocrazia, e neppure la corruzione degli addetti alle dogane e della polizia, che mi farà abbandonare l¹obiettivo prefissatomi. Aspettando il volo per il Tajikistan, punto di incontro con tre amici che mi seguiranno in questa indimenticabile avventura, decido di intraprendere una breve tappa ai piedi della imponente catena montuosa del Tien Shan, che segna il confine tra il Kazakhstan e la Cina. Escursione che mi porterà a conoscere uno dei metodi di caccia più antichi e affascinanti, quella con il falcone. Il rapace con il suo indomabile coraggio, la rapidità del volo, le acute capacità visive ed uditive è divenuto un compagno di caccia insostituibile per l¹uomo. Questa particolare tecnica fu adottata dapprima dalle popolazioni nomadi degli altipiani dell¹Asia Centrale, e in seguito si diffuse in tutto il mondo. Due sono i metodi per iniziare un berkut (falco) alla caccia con l¹uomo. il primo consiste nel prendere il falco appena nato direttamente dal nido, nutrirlo, accudirlo e, con non poche difficoltà, insegnargli le tecniche della caccia; il secondo e preferito dai falconieri, è catturare un esemplare adulto, perciò già in grado di cacciare, addomesticarlo seguendone gli istinti. In questo caso il cibo, è la chiave per abituare il rapace a collaborare con il berkutchi. Per parecchi giorni l¹uccello viene privato del nutrimento e tenuto sveglio giorno e notte. Durante questo periodo il falconiere resta accanto al falco, parlandogli e suonando il dombra, una sorta di liuto, affinché si sarà abituato alla sua presenza. Al momento in cui il berkut avrà ben assimilato la sua nuova condizione e il nuovo rapporto di amicizia-collaborazione con il falconiere, gli verrà permesso il suo primo volo libero. Una volta istruito il falcone caccerà lepri, volpi, uccelli, cerbiatti e lupi, tenute strette negli affilati artigli, verranno portati all¹amico-padrone: il falconiere.
Sul tetto del mondo
A Dushanbe, capitale del Tajikistan, i miei compagni di viaggio mi aspettano impazienti. La voglia di partire è tanta anche se le informazioni riguardanti il Tajikistan sono poche e contraddittorie. Tormentato dalla guerriglia, chiuso nel suo sottosviluppo economico, il Tajikistan è la repubblica centroasiatica più isolata dal resto del mondo e anche la più ignorata dagli itinerari turistici.
Già dai primi chilometri, ci rendiamo conto che esplorare questi luoghi è pura avventura, non di certo il luogo ideale per gli sprovveduti dei viaggi in bici. Il Tajikistan è il regno degli estremi. Le aspre montagne recano i segni di secoli di ghiaccio e vento; gran parte del suo territorio è disabitato. Un fascino selvatico che intimorisce. La regola assoluta è quella dell¹autosufficienza. In un continuo saliscendi pedaliamo lungo il fiume Panj, che segna il confine con l¹Afghanistan. Sull¹altra sponda del fiume, arroccati alle pendici di irti monti, vediamo arcaici villaggi afghani contornati da ordinati campi. La popolazione sembra vivere ancora nel medioevo. Non esiste elettricità o una strada carrozzabile, solo un¹impervia mulattiera collega i diversi nuclei. Le donne qui non sottostanno al rigido codice di comportamento imposto dai talebani: non indossano il burqa, il pesante mantello che le copre da capo a piedi e lavorano i campi fianco a fianco con gli uomini.
Dopo 287 chilometri raggiungiamo la regione autonoma del Gorno-Badakhshan. Siamo nel cuore del Pamir. Khorog, capoluogo del Gorno-Badakhshan, fu costruita dai Russi per cercare di colonizzare la regione così povera. Oggi la maggior parte degli abitanti della regione è disoccupata e il redditto medio mensile è di 1$. Al di fuori della cittadina si fa fatica a trovare di che nutrirsi. Da Khorog decidiamo di fare una deviazione e attraversare una valle parallela alla Pamir road. Seguiamo dapprima una strada solitaria che si inerpica lentamente lungo i crinali delle montagne. Nessuna abitazione, nè insediamento umano, solamente pochi yak che pascolano indisturbati. Viaggiamo in un ambiente incontaminato, un mondo di solitudine circondato da un groviglio di valli e cime ghiacciate che si perdono nell¹orizzonte. Non c¹è modo di sottrarsi alla selvaggia natura del Pamir, né alle violente raffiche dei venti. L¹ossigeno rarefatto dei 4000 metri raddoppia il peso dei nostri bagagli. Nessuna indicazione e numerose tracce di camion ci mettono in difficoltà e le nostre carte geografiche indicano in modo poco preciso il tragitto da percorrere. Ci perdiamo. I nostri nervi sono tesi, abbiamo pochissima acqua e cibo, e la stanchezza inizia a farsi sentire. I nostri pensieri sono talmente presi da come uscire da questo labirinto di tracce che non lascia spazio per assaporare le meraviglie della natura che ci circonda. Impiegheremo ben un¹ora prima di ritrovare la pista che porta verso la Pamir Road (La M41), che si srotola su di un immenso altopiano, desertico e disabitato, a 4000 metri di altitudine. Gli accampamenti dei nomadi sono rari, se non nulli. L¹altitudine e il suolo salato non consentono nè coltivazioni nè pascoli. A fine estate la neve porta l¹inverno, e per più di otto mesi, il Pamir viene stretto in una morsa di ghiaccio, mentre la temperatura scende sotto lo zero. Murgab, ultimo importante insediamento prima di oltrepassare la frontiera, è formata da una manciata di case, nel bel mezzo del nulla, dove vi sono più pali telegrafici che abitazioni. Ed è qui che incontriamo i primi Kirghisi. Si distinguono dai Tajiki per la loro fisionomia mongola e per il ak kalpak, il tradizionale cappello in feltro bianco. Prima di raggiungere il lago Karakul, il più alto dell¹Asia Centrale, creato da un meteorite, arranchiamo faticosamente sul ripido pendio del passo Akbajtal, che con i suoi 4655 metri è il punto più elevato di tutto il nostro viaggio. Davanti a noi si staglia il Pik Lenin. Con i suoi 7134 metri, è il secondo settemila dopo il Pik Kommunism. Come per incanto veniamo catapultati in un, altra dimensione. Siamo parte integrante di un dipinto impressionistico: il paesaggio è pennellato in mille tonalità pastello,verdi, viola, rosa, gialli, bianchi che si susseguono senza fine. Questo sarà il nostro ultimo giorno in terra tajika; al di là del confine si trova la terra dei nomadi delle montagne celesti: il Kirghistan.
I nomadi delle montagne celesti
Lasciata la monocromia dei panorami tajiki veniamo risucchiati dalla moltitudine di colori dei paesaggi del Kirghistan. I numerosi temporali estivi fanno esplodere il vellutato manto erboso in un inebriante collage di verdi: non un tono che domina sull¹altro. I monti, increspati come onde, si susseguono gli uni dopo gli altri, creando una sorta di fantastica e surreale scenografia. Lingue di ghiaccio scendono indisturbate fino a valle. Un mondo indomito dove vivono i pastori seminomadi discendenti di Gengis Khan: i kirghisi. Antichi padroni dell¹Asia Centrale, un tempo si muovevano liberamente tra il continente cinese e le sponde del mar Caspio. Un tempo i loro avi, dediti esclusivamente alla pastorizia, seguivano le greggi traendo da esse quasi tutto il necessario per la sopravvivenza: carne, latte, grasso e pelli per vestirsi.
Il latte fornisce la maggior parte del sostentamento dei nomadi. La mungitura avviene quattro volte al giorno e fornisce da uno a due litri di latte che, una volta trasformato in yogurt, burro e formaggio verrà venduto ai mercati sul fondovalle. Il latte fermentato di giumenta servirà pure per la prepararazione di una singolare bevanda semi-alcolica: il koumis.
Oggi la maggior parte della popolazione nomade ha adottato uno stile di vita intermedio: all¹arrivo della primavera, solo pochi pastori sellano i loro cavalli lasciando le fattorie sul fondovalle con le mandrie e le yurte per raggiungere i pascoli estivi situati sulle alture. Durante gli spostamenti vivono nelle yurte, le tipiche tende rotonde, sostenute da una intelaiatura di legno pieghevole e ricoperta da uno spesso strato di feltro. Il nostro viaggio attraverso il Kirghistan si rivela un susseguirsi di allucinanti giornate passate a pedalare su tormentate piste sterrate, che si snodano a cavatappi in un alternarsi di ripidi saliscendi. Affrontiamo impegnativi dislivelli valicando gli alti passi che collegano i diversi villaggi adagiati sul fondovalle. La catena del Tien Shan, conosciuta dalle popolazioni locali come ³Montagne celesti², formata da una moltitudine di picchi che superano i 5000 metri, formano uno dei sistemi montuosi più estesi dell¹Asia.
A Bishkek, capitale del Kirghistan ognuno di noi prenderà una strada diversa. Con immenso rimpianto saluto i miei amici. Il rapporto di amicizia profonda, che si è creato in questi due mesi, rimarrà sempre nei miei ricordi.
Nel regno di Timur
Lasciata la terra dei nomadi kirghisi mi dirigo verso la repubblica dell¹Uzbekistan, tappa finale dell¹itinerario attraverso il Turkestan. Una vasta, sterile e monotona pianura segna il mio arrivo in Uzbekistan. Il caldo è soffocante già al mattino di buon¹ora.
Samarcanda, simbolo dell¹Asia Centrale, è una delle più antiche città del mondo, edificata oltre 2500 anni or sono. Sin da tempi remoti, questa città, divisa fra mito e leggenda, ha avuto la fama di essere la più importante e bella dell¹Asia Centrale. Tanto importante poiché situata sull¹asse dove si incrociavano le più importanti carovaniere che da Occidente arrivavano ad Oriente, e la più bella in quanto fu resa celebre dal crudele condottiero Tamerlano. Il Registan è uno dei monumenti più impressionanti e superbi di tutto il Turkestan, ed il cuore dell¹antica città. La piazza, centro commerciale e artigianale, è racchiusa su tre lati da austeri edifici: le madrase dove vi si insegnavano le scienze islamiche. Qui si trova pure l¹impressionante moschea di Bibi-Khanym (1399-1404), era un tempo il più grande luogo sacro della religione islamica. Il mausoleo di Gur-i-Mir (1403-1404), tomba dell¹emiro. I sepolcri di Tamerlano, due figli e due nipoti di Uluk beg. I sepolcri di Shah-i-Zinda. L¹osservatorio, ormai in rovina, di Ulug Beg, successore e nipote prediletto di Timur, grazie al suo amore per le scienza, fece di Samarcanda un importante centro culturale. Oggi lo splendore del passato è offuscato dal caos cittadino e dal decadimento urbano post-sovietico. Gli antichi edifici, gioielli dell¹architettura islamica, sono in netto contrasto con le architetture sovietiche, con i larghi viali, le insegne luminose, gli alberghi e ristorantini che spuntano come funghi un po¹ ovunque. I mercati all¹aperto sono ancora il cuore delle città: un brulicare di attività. In questo turbolento caleidoscopio di etnie, antico e moderno s¹intrecciano e si alternano senza fine: tacchi a spillo, gonne corte, blue jeans convivono con i tradizionali costumi locali; nelle bancarelle traboccanti di cibo, affiancati ai prodotti locali e tradizionali come verdura fresca, frutta, spezie, vodka, arak, sete, gioielli d¹argento e i famosi tappeti e arazzi uzbeki si trovano pure oggetti d¹uso quotidiano in plastica colorata, Coca Cola, Mars, Marlboro, salsicce, formaggio importato dalla Germania. Lasciata Samarcanda, la strada corre attraverso le vaste coltivazioni di cotone, la principale ricchezza dell¹Uzbekistan. Il canato di Bukhara, la Citta¹ delle cicogne, un tempo era una grande città universitaria, dove giungevano studenti da ogni parte d¹Asia per frequentare le madrase. Bukhara è la quinta città santa dell¹Islam, dopo La Mecca, la Médina, Gerusalemme e Hebron. La fine del mio lungo viaggio attraverso le repubbliche dell¹ex unione sovietica termina nella città di Khiva, un tempo famosa per il suo fiorente mercato di schiavi, considerato uno dei più grandi d¹Asia. Oggi è difficile immaginare l¹atmosfera che regnava nell¹antichità. La cittadina non si risveglia più con l¹eco del muezzin che rimbalza da minareto a minareto, e il grande caravanserraglio dove alloggiavano le carovane di cammelli cariche delle più preziose mercanzie, è solo un lontano ricordo. La ristrutturazione voluta dall¹Unione Sovietica negli anni Œ70 e Œ80 ha trasformato Khiva in una grande città-museo. Ogni anno, come a Samarcanda e Bukhara, orde di turisti giunti in pullman si riversano nelle tranquille vie della cittadina. Da quando questi paesi hanno raggiunto l¹indipendenza dallo strapotere russo, grande è la gioia per la ritrovata libertà, ma atrettanto grande è la paura e l¹incertezza per il futuro.
AUTORE: Alessaandra Meniconzi