ELENA CI RACCONTA IL SUO VIAGGIO SOLIDALE IN SUDAFRICA
Un progetto di volontariato in un orfanotrofio di Soweto: un’esperienza che aiuta a crescere.
Il carrello dell’aereo sta scendendo, gli alettoni si sono appena aperti e il mare di luci gialle si avvicinano progressivamente rischiarando l’oscurità circostante.
Dopo aver attraversato l’immensità del Sahara e superato il sinuoso fiume Congo tra la vegetazione, finalmente sto per toccare il suolo sudafricano. All’arrivo mi attende SK, un venticinquenne che sarà la mia guida per i primi giorni a Johannesburg.
Orecchino d’oro, borsalino scuro in testa e jeans troppo larghi per il suo fisico da giovane maratoneta, mi accoglie stordendomi con una parlantina serrata.
La musicalità del suo accento, le consonanti pronunciate nitidamente e le numerose espressioni colloquiali che usa, non so per quale strana ragione mi fanno sentire subito a casa.
La sua lingua madre è lo zulu e l’inglese è solo uno dei cinque idiomi che conosce oltre allo xhosa, l’afrikaans e non ricordo più quali altre.
Dopo avermi accompagnata in ostello superando il fitto traffico in uscita dall’aeroporto per raggiungere le curate stradine di Rosebank, uno dei quartieri residenziali di Jo’burg, mi dà appuntamento per la mattina successiva.
Un veloce giro al centro commerciale per cambiare il denaro e si parte per un tour di Soweto.
Attraversiamo la più grande township del Sudafrica in fuoristrada, mentre mi racconta la storia di quella che è casa sua.
Non semplicemente un luogo fisico, ma una terra che gli parla dritto al cuore.
Nata in periferia a fine ’800 agli albori della corsa all’oro, Soweto si allargò in poco tempo dando vita a un tentacolare ammasso di capanne in lamiera arrugginita, una baraccopoli in cui vivono migliaia di persone.
Se un tempo era un triste luogo di confino per neri e indiani – a detta dei bianchi per contenere la peste scoppiata in città – oggi è una zona povera ma animata, dove tutti si conoscono e si muovono in un’atmosfera decisamente rilassata.
Nonostante le sue dimensioni siano cresciute, infatti, le discriminazioni razziali si sono affievolite e le violente giornate di scontri sono ormai un brutto ricordo. Lontane ma vicine, perché qui non si dimentica la storia.
La risonanza sprigionata dal massacro continua a vibrare nel memoriale di Hector Pieterson, un tredicenne diventato simbolo dell’anti-apartheid, nelle abitazioni di Desmond Tutu, arcivescovo attivista e premio Nobel per la pace, e soprattutto di Nelson Rolihlahla Mandela, il politico rivoluzionario e non violento, comunista e democratico che raggiunse la presidenza dopo anni di detenzione portando finalmente la democrazia nel Paese.
A SK si illuminano gli occhi quando ne parla. I cardini del pensiero di Mandela sono valori di cui lui stesso è portatore.
“Madiba” continua a vivere nelle conversazioni della gente, nelle vie delle township come tra le pareti del parlamento.
Dopo aver superato le Orlando Towers e i loro colorati murales, ci dirigiamo a quella che sarà casa mia nei giorni a venire: un orfanotrofio in cui vivono bambini dai 3 mesi ai 17 anni, alcuni orfani, altri abbandonati, altri ancora affidati dalla famiglia per necessità.
Condivido la casa con una volontaria svizzera, una belga e un’italiana, tutte partite con WEP (World Education Program) per un progetto di viaggio solidale.
C’è chi si ferma un paio di settimane, chi mesi. Stringiamo subito amicizia.
È facile farlo in un ambiente in cui non esistono stimoli esterni, ma solo la quotidianità non inquinata dalla tecnologia di cui ormai non facciamo a meno.
Al massimo qualche libro, per il resto vita concreta e palpabile.
Facciamo la spesa insieme, cuciniamo insieme, trascorriamo il tempo libero insieme e soprattutto lavoriamo insieme.
Ci svegliamo ogni giorno alle 6.30, accarezzate dai primi raggi di sole e dal vociare allegro dei bambini più grandi in partenza per la scuola.
Quando ancora stropiccio gli occhi assonnata, già scorrazzano nel giardino vestendo una divisa blu impolverata.
Alcuni scalzi, altri con le scarpe. Il tempo è poco.
Colazione e alle 7 sono in “infermeria”.
Le quattro corpulente infermiere che si prendono cura dei più piccoli – una trentina di bambini che trascorrono la loro infanzia in 40 m2 – non fanno caso ai volontari perché impegnate nelle faccende mattutine.
Parlano poco e male inglese, ma tra di loro comunicano a voce alta.
A volte strillano in una lingua incomprensibile, a volte scoppiano in fragorose risate.
Non è però questo il momento per farlo. Ora bisogna afferrare i bimbi che scorrazzano in qualsiasi direzione e si arrampicano ovunque, svestirli, lavarli, incremarli, cambiarli.
È fondamentale essere pronti. Un unico fasciatoio, cinque bambini alla volta, un minuto per ognuno: una catena di montaggio.
Non bisogna farli cadere mentre si mette loro il pannolino cercando allo stesso tempo di contenere la loro incontenibile energia; bisogna scegliere dal mucchio i vestiti facendo attenzione che le femmine vestano gonnellini rosa e i maschietti jeans della giusta taglia; bisogna avere mille mani e mille occhi tra strilli, scherzetti, urla, canzoni e sorrisi.
La prima ora di lavoro si consuma velocemente.
Poi la colazione sui tavolini di plastica colorata: porridge tutte le mattine e il primo bicchiere d’acqua fresca della giornata, che chiedono con insistenza aggrappandosi al lembo della mia maglia.
Poco dopo è il turno delle “grannies”, donne anziane che prestano volontariato presso la struttura. Al loro ingresso precipita un silenzio reverenziale e inizia la scuola.
È il nostro momento di riposo: sei ore di puro relax.
Dopo una seconda colazione, non c’è nulla di speciale da fare.
Ogni tanto si passeggia tra le vie sterrate di Soweto oppure si raggiunge a piedi il centro commerciale per le provviste; si gioca a carte, si chiacchiera, si sonnecchia.
Niente di straordinario, fino a quando non si percepisce il valore di quanto vissuto una volta tornati a casa.
La condivisione del proprio tempo con gli altri, l’uso naturale e genuino del tempo e il tempo vissuto a tu per tu con noi stessi.
Il turno del pomeriggio è senza dubbio il più impegnativo. I bambini si risvegliano dopo il sonnellino e sono più carichi che mai.
Saltano ovunque e mettono di tutto in bocca.
O meglio, mettono tutto il poco che trovano in giro. Già, perché per giocare non hanno nient’altro che loro stessi.
I letti si trasformano allora in pareti d’arrampicata, i volontari in altalene o trampolini. Diventano attori e ballerini, più spesso forzuti lottatori.
Si colpiscono, si pizzicano e corrono via, si fanno i dispetti e gridano in continuazione.
Nel marasma si nota chiaramente le personalità di ognuno, dal più timido al più birichino, da quello sempre sincero a chi invece cerca di imbrogliarti appena ti distrai.
Si comunica con un mix di inglese, gesti ed espressioni caricaturali, ma soprattutto con il corpo, che si esprime al meglio dopo la cena, quando li si mette a dormire: ci si lascia con stretti e lunghi abbracci mentre la cantilena di “good night my sweety” allenta la separazione.
Il giorno dopo, infatti, i bambini non sanno se ci sarai ancora o se verrai sostituito da un altro volontario.
Mi sono chiesta spesso se l’aiuto estemporaneo di un giovane ragazzo in un progetto solidale fosse utile o meno.
Sono state le stesse associazioni locali a rivelarmi la loro importanza:
- stimoli,
- una lingua nuova da imparare,
- diversi colori della pelle,
- diverse modalità di rapportarsi a chi ti sta intorno,
- compagnia,
- insegnamento,
- condivisione della fatica con il personale locale…
Sono tanti i vantaggi che le strutture come quella in cui sono stata io, ricevono da un progetto solidale.
Ed è esattamente ciò che ogni persona che faccia un’esperienza simile si porta a casa.
Sono questi i motivi per cui non mi stancherò mai di viaggiare e di vivere la realtà del posto…
L’arricchimento che ne deriva da un viaggio solidale non ha prezzo!
Elena ha partecipato a un Progetto Human a Soweto.
Di Elena Arneodo
Se vuoi avere maggiori informazioni sui viaggi solidali:
Sito: www.wep.it/partire-per-un-viaggio-solidale
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