Andrea Trevisan, perito chimico, è entrato in contatto con una piccola onlus che ha fatto maturare in lui la convinzione di voler lavorare nel settore umanitario
Andrea Trevisan, dopo essersi diplomato come perito chimico ed aver lavorato per quattro anni in un’azienda in provincia di Varese, è entrato in contatto con una piccola Onlus che gli ha offerto l’opportunità di partecipare a un campo estivo di un mese che ha fatto maturare in lui la convinzione di voler lavorare nel campo umanitario.
Pochi mesi dopo Andrea è partito per il Burkina Faso, dove è rimasto 16 mesi lavorando per la stessa organizzazione e accumulando esperienza sul campo. Una volta lasciato il Burkina, Andrea è partito per la Repubblica Democratica del Congo, dove è rimasto tre anni, lavorando per altre due ONG.
Dopo il Congo, sono venuti il Burundi, la Giordania e L’Afghanistan ed ora Andrea si trova a York, in Inghilterra, per frequentare un master in cooperazione e sviluppo che gli permetterà di aggiornarsi sulle migliori pratiche di intervento umanitario e di recupero post-conflitto, così da essere preparato al meglio per le sue prossime missioni.
Mi puoi raccontare come sei arrivato, con una formazione da perito chimico, ad occuparti del settore dell’umanitario?
Non avendo preparazione teorica sul tema, ad esempio nel campo diritti umani o relazioni internazionali mi son buttato sull’esperienza pratica. Avendo una qualifica tecnica dopo la prima esperienza di volontariato ho avuto l’opportunità di fare il logista, di lavorare cioè sulla struttura di supporto all’intervento. In questo ruolo l’attitudine, il sapersi sbrogliare, conta tanto quanto una formazione. Solo da poco infatti sono stati lanciati i primi corsi specialistici in logistica.
Questa passione ti ha presto spinto a lasciare l’Italia. Il motivo principale era legato all’andare nei posti dove c’era più bisogno? O ha contribuito anche il desiderio di cambiare un po’ aria?
Senza dubbio la volontà di cambiare un po’ aria ha pesato nella scelta. Sto vivendo la mia esperienza non solo dal punto di vista etico ma anche come un percorso professionale e personale che difficilmente avrei potuto realizzare rimanendo in Italia.
Afghanistan, Congo, Burkina Faso, Giordania. Questo lavoro ti ha spesso portato a recarti in luoghi tristemente noti per disastri, tragedie, scarsa sicurezza personale, condizioni igieniche insostenibili. Questi aspetti non ti hanno mai indotto un po’ di timore?
Un pochino a dir la verità si. Poi però ti rendi conto che l’hanno fatto in tanti prima di te. Quindi basta prendere le adeguate precauzioni per evitare problemi. Certo che se vai in Burkina puoi pensare che al massimo ti viene una malaria. Se invece vai in Afghanistan ci sono situazioni che sfuggono al tuo controllo. C’è sempre una parte di rischio che non si può eliminare. Ti dirò, in verità oggi quando torno e mi capita di andare a Milano non so più dove posteggiare la macchina senza paura che me la portino via; col tempo ci si abitua a misurare le situazioni con occhi diversi.
Dopo un anno e mezzo che vivevi in Burkina Faso, eri riuscito ad abituarti ad uno stile di vita completamente diverso da quello occidentale? O continuavi a soffrire quotidianamente per la mancanza di comfort e sicurezza?
In Burkina la situazione era parecchio buona. Stavamo nella seconda città del paese, avevamo un discreto livello di comfort. Diverso è stato il Congo dove più che il comfort ho realizzato cosa voglia dire vivere in condizioni di insicurezza. Con filo spinato intorno alle basi, restrizioni sui movimenti, severe regole di comunicazione. Sono i limiti imposti dalla guerra purtroppo.
Quali aspetti della propria vita bisogna lasciare in secondo piano, quando ci si accinge ad imbarcarsi in una simile missione?
Più che mettere in secondo piano preferirei dire: “barattare”. Si lasciano delle cose e se ne ricevono altre. Ci si abitua per esempio a nuovi tipi di legami con le persone. Si incontrano altre culture, si visitano paesi che altrimenti sarebbero rimasti dimenticati e via dicendo. Staccare inoltre aiuta a capire quanto roba inutile ci circonda. A me è andata piuttosto bene, quando mi porto dietro la chitarra ho già metà di quello che mi serve. Ed in più si porta aiuto concreto a chi soffre.
Cos’è che ti ha spinto a mettere tutto in secondo piano, rispetto alla voglia di lavorare nel settore umanitario ed essere di aiuto per chi ne ha veramente bisogno?
Una buona dose di ideali e senso etico e la volontà di credere in un mondo migliore. Passare dalle parole ai fatti è stato alla fine un passo quasi naturale.
Quali sono le gratificazioni di questo lavoro?
Le gratificazioni sono tante ma altrettanti i problemi e le frustrazioni. A volte è difficile vedere l’impatto del proprio lavoro sul campo, specialmente su progetti a medio o lungo termine. Bisogna allora mettere a fuoco altre cose che riusciamo a trasmettere e ad assicurare alla gente. Devo dire che i ricordi più belli sono legati non solo all’apprezzamento dei beneficiari ma anche quello dello staff locale nei paesi in cui ho lavorato. Veder riconosciuto il proprio lavoro e le proprie motivazioni, in condizioni spesso molto difficili, è davvero una bella soddisfazione. Anche quando a volte le cose non vanno come ci si aspettava.
Ora che sei in Inghilterra per studiare, continui comunque a recarti in Burkina Faso e negli altri paesi dove hai curato dei progetti umanitari?
Professionalmente parlando no, ho preso una pausa per dedicarmi allo studio. Nel corso però abbiamo l’opportunità di effettuare delle visite sul terreno per fare ricerca per il nostro programma di studi. Siamo appena stati tre settimane in Sri Lanka e a marzo ognuno andrà due mesi a lavorare con un’organizzazione sul campo. Per chi non ha esperienza è un’ottima opportunità.
Credi che farai questo per tutta la vita?
Molti di quelli che fanno questo lavoro pensano che sia il più bello del mondo. Quindi per il momento sì, mi piacerebbe rimanere nel campo ancora per un po’. Poi è un lavoro molto variegato, col tempo ci si può muovere verso ruoli più manageriali. Magari nelle capitali ed avere anche l’opportunità di farsi una famiglia. E’ un lavoro che offre davvero infinite opportunità professionali e personali.
Se tornassi in Italia che cosa faresti?
Accidenti, di sicuro non più chimica. Magari sempre nel terzo settore, nella comunicazione, nel fundraising o nel training delle giovani leve. Ecco magari potrebbe essere un’idea tra 5 o 6 anni.
Hai mai valutato l’alternativa di una vita tranquilla -casa, famiglia, lavoro- nella tua terra natale?
Poco dopo diplomato ho avuto quasi subito un contratto a tempo indeterminato. Con il primo stipendio ho realizzato il sogno di comprarmi una chitarra elettrica e qualche mese dopo la mia prima macchina. A 20 anni mi sembrava di avere il mondo in mano ed invece non uscivo dai 4 villaggi della provincia in cui abitavo. Per fortuna è durato poco, son bastati due viaggi e la realtà del mondo mi si è aperta davanti. Mi sembra davvero un peccato non sfruttare le opportunità che il mondo ci riserva oggi, vogliamo pensare globale solo a metà?
Di Giacomo Savonitto 07/02/2012