Andrea Lodovichetti, un regista italiano a New York

Andrea Lodovichetti diplomato in Regia Cinematografica al Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato Assistente alla Regia di Paolo Sorrentino per “L’amico di famiglia” e “ Il divo”.
Dal 2002 ad oggi, i lavori cinematografici di Andrea Lodovichetti hanno vinto e sono stati proiettati nel corso di importanti eventi cinematografici internazionali in diversi Paesi del mondo. Nel 2008, durante il Festival del Cinema di Cannes, ottiene il primo posto assoluto tra più di 2000 registi provenienti da tutto il mondo: Andrea vince il “Looking for Genius Award” (al Babelgum Film Festival) ed è premiato personalmente dal regista afro americano Spike Lee, presidente della giuria della competizione. L’anno successivo, il corto vince l’Italian Golden Globe. Una vita trascorsa ad apprendere l’arte cinematografica, i suoi trucchi ed i suoi segreti, numerosi i riconoscimenti ricevuti, ma tante le delusioni di un Paese per cui il talento è qualcosa di pericoloso e non una risorsa.
Stanco di aspettare un cambiamento radicale, Andrea ha deciso di partire, di trasferirsi nella Grande Mela, dove avrà finalmente l’opportunità di realizzare i propri sogni. “Non è un addio, non è un mandare in malora, non è un rinnegare: è un semplice, puro, onesto tentativo di realizzare il mio sogno in un Paese in cui ciò potrebbe venirmi concesso”.

Andrea, raccontaci qualcosa del tuo percorso professionale.

Fin da piccolissimo sono stato attratto dalle “immagini in movimento”, ma il percorso di formazione vero e proprio (al di là di alcuni “esperimenti” precedenti, che erano più un gioco che altro) è iniziato dopo il liceo, con il Dams di Bologna. Nel capoluogo emiliano, oltre all’Università, ho frequentato la scuola di teatro “Teatro del Navile” diretta dall’attore e regista Nino Campisi – non tanto per particolari velleità attoriali, quanto per prepotenti necessità di comprensione rispetto all'”altra parte” di una macchina da presa o di una platea. E’ stata un’esperienza formativa complementare ed importantissima per ciò che successivamente sarebbe stato il mio lavoro. Nel 2003 sono entrato al Centro Sperimentale di Cinematografia, anche grazie ad un corto che ebbe un notevole successo in quegli anni, e proprio lì ho conosciuto Paolo Sorrentino, di cui sono stato assistente alla regia per i suoi due film “L’amico di famiglia” e “Il divo”. All’interno del CSC ho realizzato tre cortometraggi, uno dei quali (il saggio di diploma, dal titolo “Sotto il mio giardino”) ha vinto moltissimi premi e riconoscimenti in tutto il mondo, tra cui l’Italian Golden Globe 2009 e il “Looking for a Genius Prize”, consegnatomi da Spike Lee, durante il Festival di Cannes nel 2008. Con questo corto ho avuto la possibilità di girare il mondo (ad onor del vero mi hanno aiutato non poco anche i 30 mila dollari del premio di Spike Lee!), partecipando a Festival e rassegne in ogni parte del pianeta e creandomi un enorme numero di contatti importanti. Oltre a questo, come sappiamo, è necessario “pagare le bollette” dunque, come tutti, negli anni mi sono dedicato anche alla produzione e realizzazione di video aziendali, videoclip musicali e spot. Il mio ultimo lavoro, realizzato con Nicola Nicoletti come montatore e Paolo Laddomada alla fotografia, è stato “In viaggio per un sorriso”, un reportage on the road su un gruppo di motociclisti italiani che hanno percorso 4.000 km per arrivare a Burgos (al confine tra Spagna e Portogallo) e donare arredamenti per una casa famiglia, gestita dalla Caritas. L’operazione è stata molto emozionante, avendo essa doppia finalità benefica: per i bambini di Burgos e per quelli dei reparti di Pediatria e Neuropsichiatria infantile della mia città natale, Fano. Infatti tutti i proventi della vendita dei DVD saranno devoluti all’Ospedale. Dal 2010 collaboro con Eros Tumbarello, con cui ho un paio di progetti “lungometraggi” in cantiere, altrettanti con Damiano Bruè della scuola di Cinema “Officine Mattoli” e lo stesso Tumbarello.

Quando hai deciso di intraprendere la professione di regista, quali erano le tue aspettative?

Sapevo che sarebbe stata una strada faticosa. Ma sapevo anche che le difficoltà fanno parte di ogni percorso, soprattutto quelli attinenti al mondo dell’intrattenimento, dell’arte e della cultura. Pertanto non mi sono lasciato scoraggiare, supportato (sempre) da una famiglia che non ha fatto mai mancare la propria presenza, il proprio incoraggiamento, il proprio sostegno. In più, mi sento di rappresentare le ambizioni, i sogni di mio padre, percorrendo quel sentiero da lui abbandonato: medico di professione, filmaker per passione, molti anni fa prese infatti un’altra strada. Io ho fondamentalmente recuperato quella che non ha imboccato lui.

Durante questi anni di lavoro in Italia, quali sono state le tue più grandi soddisfazioni e quali invece le delusioni?

Sicuramente aver superato le selezioni al CSC (al secondo tentativo) è stata una bella vittoria. Anche la collaborazione con Paolo Sorrentino e Nicola Giuliano è stato motivo di grande soddisfazione. Per ciò che concerne le delusioni… beh, qui si tocca un nervo scoperto, non solo per la mia esperienza personale, quanto per quella di tutti coloro che fanno il mio lavoro in questo Paese. Una grande delusione ricorrente, che riassume praticamente tutte le altre, è la mancanza di un interlocutore in un meccanismo fermo, tagliente ed arrugginito. Un sistema che per difendere se stesso deve annullare tutto il resto, non può prescindere da rigetto, ignoranza, ottusità. Ostilità. La competitività che diventa prevaricazione determina che l’ambizione venga letta come presunzione, la determinazione – arroganza; l’entusiasmo – insistenza. Non funziona e lo vediamo. Ma non si cambia.

Cosa significa essere regista in Italia?

Significa incazzarsi almeno una volta al giorno! L’Italia, soprattutto (ma non solo) nel mio ambito professionale, è straziata da clientelismi sfrenati, disinteresse globale, assenza totale di meritocrazia. E pigrizia. Elementi che conformano l’ovvia impossibilità di poter dimostrare le proprie capacità e contribuire alla crescita, personale e collettiva. Ci limitiamo, in Italia, a spingere sempre e solo “gli amici degli amici” a prescindere da qualità, crediti e titoli che questi possano avere. Questo è uno dei motivi per cui in questo Paese non si va avanti, perché tutto è basato su una drammatica dicotomia: talento/novità = pericolo e non “risorsa”. Non c’è il parco pubblico, ci sono solo 1.000 orticelli. Nessuno vuole staccarsi dalla poltrona, qualsiasi essa sia, e per nessun motivo. Non c’è alcuna progettualità, nessun investimento a medio-lungo termine da parte di chi è al potere. E’ come quel giochino che si faceva da bambini, in cui al termine della musica ci si doveva sedere. Chi è seduto è a posto, chi rimane in piedi è fuori. Il problema è che non è semplice essere seduti o trovare un posto libero, nell’ottica del “lei non sa chi sono io”: qui le sedie se le portano “da casa”.

Quanto spazio c’è per la tua professione in Italia?

Poco, purtroppo. La situazione, soprattutto in questi ultimi anni, da stagnante è diventata insostenibile. La politica, questo enorme, laido, purulento Re Mida al contrario, che ha infettato ogni campo della nostra esistenza, sta portando tutti ad una dimensione pericolosissima: quella della rassegnazione. Insomma, stando in Italia, spesso… “ti passa la voglia”. Lo dico con polemica, con rabbia, ma soprattutto con l’amarezza di chi avrebbe voglia di fare e, soprattutto, è attaccatissimo alle proprie radici. E’ un vero peccato, una cosa che mi fa star male. Da regista e soprattutto da italiano.

E quali sono le gratificazioni?

Le gratificazioni sono tutte quelle legate al mare di talenti, di gente preparatissima, di collaborazioni possibili che si possono stringere. Conosco migliaia di persone eccezionali, di cui ti puoi fidare ciecamente, puoi contare su di loro per ogni progetto, lavoro, compito. L’ Italia è piena di talenti, in ogni ambito, non solo in quello creativo ed artistico. Anche piccole cose, fatte con queste persone, diventano gigantesche.

Come si diventa registi? C’è qualche scuola specifica da frequentare?

Truffaut diceva che tecnicamente per imparare a fare il regista sono sufficienti pochi giorni, ma poi il lavoro del regista è estremamente più complesso ed articolato. Credo sia esattamente così. Io ho frequentato il Dams e il CSC, il primo è ottimo per una formazione culturale di base e prevalentemente teorica, il secondo è fondamentale complemento pratico. Ritengo che il mio percorso sia stato molto buono, ha saputo fornirmi degli strumenti adeguati per intraprendere la via del cinema in modo consapevole. Fermo restando che in questo lavoro non si finisce mai di imparare. Bisogna fare, fare, fare. Credo che la teoria sia imprescindibile, altrimenti il rischio è quello di trovarsi, ad un certo punto, innanzi a limiti naturali insormontabili e fuori tempo massimo. D’altra parte, però, non può esistere solo la teoria. E’ un po’ come a scuola guida: potresti sapere benissimo come comportarti in un incrocio metropolitano a 6 vie in cui c’è un motorino, quattro biciclette, un tram, un’ambulanza e persino una processione, salvo poi accorgerti che, nella vita “reale”, tu non sia in grado nemmeno di affrontare una rotatoria di provincia.

Quali sono i pro e i contro del tuo lavoro?

La soddisfazione di trasformare in qualcosa di condivisibile un’idea, un’emozione, un ricordo è un privilegio che non ha eguali. Soprattutto se declinato in quel “festival delle emozioni” che è un film, come diceva Barthes. Certo: “regista” è chi fa film. Se non fai film, che regista sei? Mi spiego: finché non diventi “uno famoso” sarai sempre visto come quello che “gioca a fare il cinema” e questo spesso e volentieri è davvero fastidioso, debilitante. Banalizzando, a scopo di chiarezza: se l’idraulico ti cambia il sifone, lo paghi e taci. Se un regista chiede la sua “parcella” per un video, la risposta sarà sempre e comunque, a prescindere dalla cifra: “ma così tanto per un lavoretto così semplice?”. Non so se mi sono spiegato. Ricordo il discorso che feci a Cannes e a Spike Lee durante la premiazione e in occasione di un così tanto prestigioso riconoscimento internazionale, per un lavoro da me realizzato. Chiesi aiuto a Daniel Pennac e, citandolo, dissi “sono molto contento perché da domani mattina saranno meno le persone che mi chiederanno: ma tu, Andrea, nella vita esattamente che fai?” Capisco che è difficile inquadrare la mia professione secondo canoni standard da ufficio 8-17, perché è ovvio che lavori su parametri meno comuni. Come diceva Conrad: “come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Sic et simpliciter.

A febbraio partirai per NY. Come e perché hai maturato questa decisione?

Ci penso da qualche anno. Non è stata una scelta dettata da superficialità ed impulsività. Come accennato prima, mi sembra che in questo Paese i parametri siano tutti sbagliati. Se non si trova spazio qui, è naturale cercarlo altrove. Almeno provarci, per avere la consapevolezza di non aver lasciato nulla di intentato. E’ una questione di amor proprio, a questo punto. E di rispetto nei confronti di chi in te ha sempre creduto. Francamente spero che le cose in Italia possano cambiare, soprattutto per i più giovani. Ci vorrà molto, molto tempo. Pensare che la mia generazione (ho 36 anni) abbia “perso il giro” mi manda fuori di testa. D’altra parte, onestamente, sono stanco di rodermi il fegato inutilmente. Perché, nel frattempo, il tempo passa e noi, così tanto giovani non siamo più. Non è vigliaccheria, è sopravvivenza.

Perché hai scelto proprio NY?

Perché è una città che adoro e dove ho moltissimi contatti. Rimasi folgorato sin dalla prima volta che ci misi piede. Ed ogni volta è come la prima volta. In più, dovrei già aver trovato un lavoro (sempre nel mio ambito) che potrebbe permettermi di mantenermi senza particolari problemi. Speriamo vada in porto.

Per quanto riguarda il visto cosa puoi dirci?

In relazione ai tanti premi e riconoscimenti internazionali che ho vinto dal 2002 ad oggi, sentendo il parere positivo di alcuni avvocati americani, mi sono convinto a fare l’application per il visto denominato O-1 (trovate tutte le informazioni online), ossia la possibilità di soggiorno “in regola” che il Governo Americano concede a cittadini stranieri, che abbiano dimostrato “extraordinary abilities” nel campo dell’arte, della ricerca e dello sport. Sto elaborando tutta la documentazione necessaria richiesta, proprio in queste settimane.

Sai già come “muoverti” nella Grande Mela o parti “all’avventura”?

Ho numerosi contatti e un paio di interlocutori potenzialmente interessati ad altrettanti progetti da realizzare proprio a NYC. Ne ho anche uno per Los Angeles, non è infatti escluso che possa andare in California per qualche tempo. E’ tutto in fase di costante evoluzione e crescita. Ci credi che già solo vedere le cose “muoversi” (o in ipotesi di movimento reale) mi rilassa e mi rimette di buon umore? Fa riflettere…

Pensi che ci siano maggiori possibilità all’estero per la tua professione?

Sicuramente in America puoi giocare la tua partita. Qui è difficile persino avvicinarsi alle mura esterne degli spalti. Oppure devi trovare un modo per conoscere il custode ed entrare da dietro. Sono davvero stanco di tutto questo.

Sicuramente nei prossimi mesi subirai un grande cambiamento di vita. Come ti stai preparando a quel momento?

In modo assolutamente naturale. Non solo per il fatto che il Visto O-1 ti offre una base “freelance”, ma anche per la totale, lucida consapevolezza che la mia mossa non è “vezzo” ma “necessità”. Nessuno se ne andrebbe da qui se non fosse costretto. L’Italia è il mio Paese e sono legatissimo alla mia terra e alle mie origini. Io voglio solo provare a fare ciò per cui ho studiato e mi sono dedicato per tutta la vita, fin da quando ero bambino. Non è un addio, non è un mandare in malora, non è un rinnegare: è un semplice, puro, onesto tentativo di realizzare il mio sogno in un Paese in cui ciò potrebbe venirmi concesso.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Ricordo uno sketch di Elio e le Storie Tese nell’intro di un brano di tanti anni fa. A questa domanda, rispondevano in modo irriverente e geniale come sempre “costruire autostrade. Per i giovani”. Ecco: oggi voglio rispondere così a questa domanda. Riuscire a costruire, attraverso i miei progetti, un’autostrada, un ponte che riesca a collegare quei tantissimi talenti italiani ad un Paese, disposto a metterli alla prova e non necessariamente ad accantonarli per stupidità e paura.

WEBSITE: www.andrealodovichetti.com
DEMO REEL: http://vimeo.com/18776198
Autori delle foto pubblicate: Wilson Santinelli, Paolo Laddomada

Di Nicole Cascione 21/11/2012

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