Nicola Gnesi fotografo a New York

NICOLA GNESI FOTOGRAFO A NEW YORK

Il suo sogno era diventare Magistrato, così Nicola studia e si laurea in Giurisprudenza. Quando il padre gli presta la sua Canon F1, inizia a scattare foto per amici sulla spiaggia della Versilia; ma è un servizio fotografico per un quotidiano nazionale che gli consente di iniziare a fare sul serio. Adesso vive tra la Toscana e gli Stati Uniti. Il motivo lo spiega senza esitazioni:

“Gli italiani sono bravissimi. Soprattutto nei lavori creativi. Mezza New York è composta da italiani strepitosi, il problema però è l’ambiente. In Italia non è detto che uno bravo lavori; negli Stati Uniti è quasi certo.”

Ciao Nicola, quando hai iniziato ad appassionarti di fotografia? Ho letto che è stato tuo padre a indirizzarti verso questo mestiere, oggi tanto difficile quanto inviato, regalandoti una Canon F1…

In realtà la F1 era sua (e lo è tutt’ora, temo). Diciamo che me ne sono appropriato con un suo tacito assenso. Non ero ancora maggiorenne, e come primo lavoro mi occupai di fare le foto in Versilia per un fotografo che lavorava per un quotidiano nazionale.

Ancora mi deve pagare, ma è stata comunque un’ottima esperienza, diciamo che è stata una bella fortuna iniziare a far sul serio fin da subito: lavoravamo ancora con pellicola e non potevi sbagliare. Ho dovuto imparare velocemente un sacco di cose.

Foto: courtesy MOG

Ti sei laureato in Giurisprudenza, volevi fare l’avvocato? Perché hai deciso di diventare fotografo? In Italia è ancora possibile pensare di trasformare una passione in lavoro?

In realtà sparavo ancora più in alto, volevo fare il magistrato, ecco perché ho scelto giurisprudenza. All’epoca ovviamente fotografavo già ma purtroppo non ho avuto le idee chiare per molto tempo. Questo credo sia il più grande handicap che abbiamo in confronto agli anglosassoni. Riguardo alla seconda domanda in generale non saprei, o sei un talento o lo devi volere, volere, volere. In Italia vale lo stesso discorso, aggiungendoci almeno 10 “volere” in più.

Da quali modelli della fotografia prendi spunto? Qual è la tecnica che prediligi e perché?

Domandona. Vado a periodi, in certi periodi seguo certi fotografi o generi, in altri seguo roba totalmente diversa. Ovviamente questo non si limita alla fotografia e basta, ma spazia in tutta l’arte. Riguardo alla tecnica sperimento tutto e uso tutto, dallo studio di posa al cellulare.

Foto: Archivio Nicola Gnesi

Quando hai deciso di andare a New York?

Più o meno è sempre stato il mio sogno, come tutti credo.

Sei arrivato la prima volta New York nel 2012, dove hai iniziato un lavoro di ritratti sui volti e
sull’importanza del corpo nell’esibizione nella società al giorno d’oggi. Il progetto si è trasformato in una mostra?

In realtà i progetti sui volti erano due. Uno si è trasformato in una mostra. L’altro riguardava una protesta contro il razzismo e il porto di armi libero a seguito di un cruento omicidio di un ragazzino. Dopo quella protesta successe il finimondo, Obama tenne un discorso molto famoso che ha portato l’argomento sulla bocca di tutti.

Nel 2013 invece ti sei dedicato a un lavoro fotografico sull’importanza della socializzazione nelle carceri. Che cosa hai rappresentato con quegli scatti e quale era l’importanza di quel progetto per te?

Questo progetto mi sta molto a cuore perché è l’anello di congiunzione tra i miei studi in Legge e la fotografia. È frutto di un lavoro lunghissimo che continua tutt’oggi (a marzo riprendo a “rientrare”). L’idea principale è quella di far fotografare direttamente i detenuti sotto la mia supervisione. Chi meglio di loro saprebbe raccontare il carcere? Tutto ciò nasce dall’idea che se la pena detentiva deve tendere alla rieducazione del condannato, tenerlo segregato in una cella è un errore.

Qual è il tuo scatto migliore? O quali sono i progetti ai quali hai partecipato a cui sei maggiormente legato?

Non saprei. Data la mia insicurezza dovremo aggiornare questa domanda ogni mese. E non grazie a foto nuove. Anzi capita spesso che girando nell’archivio trovi roba molto interessante fatta magari anni fa.

Adesso il mondo dell’editoria sta cambiando. Stanno chiudendo molte riviste (anche di viaggio) e quindi molti fotografi sono rimasti senza sostegni.

Tu come continui lavori in questo campo: ti sei rivolto al web? Ci sono margini per guadagnare adesso che il mercato è saturo: da una parte c’è meno richiesta e dall’altra c’è troppa offerta di fotografi.

Io ormai lavoro pochissimo con i giornali, lavoro principalmente con clienti privati. L’editoria ha le luci d’emergenza accese da un bel po’, grandissime agenzie chiudono, ecc ecc. ma credo che la scelta di lavorare con il privato non dipenda da ciò. Questo passaggio l’avrei fatto lo stesso.

Hai aperto un tuo sito per trovare nuovi agganci e per mostrare il tuo portfolio?

www.nicolagnesi.it Diciamo che il sito è il primo veicolo, la vetrina. Lì uno può capire se ci sei o meno. Ma tutto dopo si gioca face to face. La presentazione, anche orale, del tuo lavoro è fondamentale. Ecco perché il cruccio di ogni fotografo (e non solo) è la composizione del portfolio.

Andando in giro per il mondo hai conosciuto altri fotografi? Se c’è, qual è secondo te la differenza maggiore tra i fotografi italiani e quelli stranieri? E che cosa si predilige in Italia e cosa all’estero?

Gli italiani sono bravissimi e questo vale un po’ per tutti i lavori creativi. Mezza New York è composta da italiani strepitosi. Diciamo che il problema è l’ambiente. In Italia non è detto che uno bravo lavora; negli Stati Uniti è quasi certo. Ti fai un mazzo enorme perché i ritmi sono totalmente diversi, ma se sei bravo e ci credi ce la fai. Ma devi essere davvero bravo.

Parlando invece della grande bellezza dell’Italia, tu oltre a girare il mondo, fotografi anche il nostro Bel Paese, immagino. Quali sono gli scenari che preferisci immortalare quando torni a casa?

L’Italia è la più bella. Spero di iniziare presto un lavoro sulla periferia romana nata con l’edilizia degli ultimi vent’anni. Del resto gli ambienti di confine, di passaggio, quelli meno belli, sono quelli che mi attraggono di più.

Inoltre, venendo da Pietrasanta che è un importante centro artistico, ti dedichi tra l’altro alla fotografia d’arte collaborando con importanti artisti come Kan Yasuda, Novello Finotti, MOG e fotogrando diverse gallerie d’arte come Flora Bigai. Come sei riuscito a introdurti in questo mondo?

Sì. Vivendo a Pietrasanta e avendo respirato marmettola fin da piccolo non poteva che andar così. Nei bar trovi sempre artisti da mezzo mondo che si bevono il loro caffè. Devi essere un po’ intraprendente, vai negli studi, ti fai vedere… un bicchiere di vino e magari una foto ci scappa.

E poi se gli piaci ti richiamino. È un cosa fantastica lavorare con gli artisti. Impari ogni minuto che passi con loro. Bellissimo. È una delle fortune più grosse che abbia.

L’apertura mentale è fondamentale per ogni ambito, ma quanto ha influito la tecnologia nel tuo campo?

Adesso tutti si sentono un po’ fotografi con Istagram o con una macchina professionale. Tu che hai maggiore esperienza cosa ne pensi, è davvero tutto più semplice con la tecnologia? Mi riferisco in primis al passaggio dal rullino al digitale e alla semplicità di utilizzo di macchine fotografiche professionali da parte di tutti, oltre ovviamente all’abbattimento dei costi.

È assolutamente più semplice. Mio padre sa calcolare l’esposizione solo vedendo la luce d’ambiente con gli occhi. Quanti di noi ci riuscirebbero ora? Non nascondo però che il digitale è una grande fortuna per tutti, è inutile fare i puristi.

Il digitale dimezza i tempi e i costi con qualità talvolta maggiore rispetto alla pellicola. Di sicuro non c’è quella poesia che c’era una volta.

Non a caso a LABottega, la galleria con cui collaboro www.labottegalab.com facciamo camera oscura ogni settimana.

Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro? Se ci sono, verso quali Paesi ti vorresti indirizzare oltre all’America? O il tuo futuro lo vedi in Italia?

Dati i periodi non floridi, l’obiettivo è di continuare su questa strada che mi piace tantissimo. In Italia o all’estero non conta. Credo che si debbano lasciare tutti i canali aperti e non adagiarsi mai. Meglio ripeterlo, mai!

Di Simona Cortopassi

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“yourevolution”
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