Viaggio in Bolivia: dall'Amazzonia alle Ande
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La Bolivia, chiamata il Tibet del continente americano, per le quote elevate e l’asprezza dei paesaggi, è uno dei paesi sudamericani più legati alle tradizioni, con un grandioso passato testimoniato da vestigia incaiche e città coloniali, con zone geografiche diversissime che spaziano dalle imponenti catene montuose e dagli altopiani desertici, alle immense savane del bacino amazzonico.

Martedì 4 ottobre

E’ ancora notte quando con Daniela e Roberto, nostri abituali compagni di viaggio, partiamo per Milano Malpensa. Con il primo volo del mattino raggiungiamo Parigi; agitazioni sindacali e scioperi, condizionano il regolare svolgimento del traffico aereo all’aeroporto parigino e così partiamo per Caracas con un consistente ritardo. Riusciamo ad imbarcarci sul successivo volo per Lima, solo per l’intervento del personale di terra della Taca, che ci conduce direttamente all’aereo, consegnandoci le nuove carte d’imbarco nei corridoi dell’aerostazione. Dopo un primo scalo nella capitale peruviana, proseguiamo per La Paz dove espletiamo le modalità doganali all’aeroporto di El Alto. Nel cuore della notte giungiamo finalmente a Santa Cruz de la Sierra, dove atterriamo mentre infuria un violento temporale equatoriale.

Mercoledì 5 ottobre

La pioggia caduta incessantemente per tutta la notte, è diminuita d’intensità. Usciamo dall’hotel e camminando al riparo degli ampi porticati delle case coloniali, dalla centralissima Calle Junin raggiungiamo Plaza 24 de Septembre. Santa Cruz, metropoli ricca, moderna, persino opulenta, rappresenta l’antitesi dell’immagine che solitamente si ha della Bolivia. Città di frontiera dedita al commercio, all’allevamento ed all’agricoltura, ubicata ai margini delle vaste pianure che delimitano il bacino amazzonico, a soli 430 metri d’altitudine, è il punto di partenza che abbiamo scelto, per un migliore e graduale acclimatamento alle alte quote dell’altipiano. In città non sono molti i luoghi degni di interesse; iniziamo la visita dalla Basilica di S.Lorenzo, costruita nel secolo scorso sulle rovine della vecchia cattedrale del 1615, dal caratteristico soffitto in legno e dall’altare rivestito con formelle in argento riccamente lavorate. Raggiungiamo quindi il Parque El Arenal, dove su un’isola al centro del piccolo lago possiamo ammirare i murales in ceramica colorata, opera di Lorgio Vaca, un noto artista locale. Recuperati i bagagli in hotel, con un taxi collettivo ci dirigiamo a Samaipata, villaggio (1650 metri s.l.m.) tra le colline pedemontane della Cordillera Oriental.

Giovedì 6 ottobre

Usciamo per le strade ancora deserte di Samaipata, tranquillo villaggio di montagna e punto di partenza per le escursioni al sito cerimoniale pre-incaico di El Fuerte. Raggiunta la piazza, dove alcune donne stanno allestendo sul marciapiede un improvvisato mercato con i prodotti del proprio orto, contattiamo uno dei numerosi ed assai malridotti taxi che assicurano il collegamento con El Fuerte e le comunità limitrofe. Percorriamo per un paio di chilometri la strada per Santa Cruz, quindi imboccata una ripida strada sterrata, saliamo verso i 1950 metri di El Fuerte. Una pioggerellina fine ma insistente ci accompagna nel tragitto; il tergicristallo dell’auto non funziona e l’autista è costretto a fermarsi più volte, per azionarlo manualmente. Arriviamo al sito; è immerso nella nebbia. Dopo lo scoramento iniziale, approfittiamo di un momentaneo miglioramento delle condizioni meteo per iniziare la visita. Saliamo ai Mirador; pazienti attendiamo che il vento che soffia ad intervalli regolari, dissolva momentaneamente la nebbia e ci consenta di vedere El Cerro Esculpido; una enorme roccia scolpita, usata per fini cerimoniali che si trova sulla sommità della montagna. Non si conosce ancora la funzione esatta di El Fuerte; quasi sicuramente l’area principale, una lastra di pietra lunga un centinaio di metri adornata da incisioni e bassorilievi e con due lunghi solchi paralleli, chiamati il dorso del serpente, ha un significato religioso. Lateralmente sono presenti numerose nicchie che si presume servissero per contenere mummie o statue degli dei. Completato il periplo della collina rocciosa, imbocchiamo il sentiero che inoltrandosi nella vegetazione conduce alle rovine di Kallankas e Akllawasi; abitazioni risalenti al periodo incaico edificate attorno ad una vasta piazza usata per cerimonie religiose e militari. Ritornati al taxi che ci ha atteso durante la visita, facciamo ritorno a Samaipata. Dopo aver atteso l’apertura pomeridiana e visitato il piccolo ma interessante museo contenente reperti archeologici, ritorniamo a Santa Cruz.

Venerdì 7 ottobre

Mentre Daniela e Roberto rimangono in hotel, ci rechiamo in aeroporto dove ho appuntamento con Mauricio, addetto della compagnia aerea Taca. Purtroppo un nostro bagaglio non è giunto a destinazione. Mentre nelle telefonate dei giorni scorsi Mauricio non era stato in grado di darci alcuna informazione, ora finalmente ha saputo che il bagaglio è stato trattenuto a Parigi a causa degli scioperi in atto. Dopo aver preso accordi per farcelo recapitare in una delle località che andremo a visitare nel corso del nostro viaggio, ritorniamo in città. Ci rechiamo nuovamente in Plaza 24 de Septembre. All’ombra della lussureggiante vegetazione tropicale dei giardini, osserviamo la gente del posto; chi gioca a scacchi, chi dorme, chi legge il giornale seduto sugli alti scanni di giovani lustrascarpe. Nel pomeriggio raggiungiamo il terminal; alle 16.30 partiamo in autobus per Sucre. Ad Angostura, piccolo villaggio dove la pianura lascia il posto ai primi contrafforti della Cordillera Oriental ci fermiamo presso un piccola grotta; gli autisti, dopo aver acceso alcuni ceri si inginocchiano a pregare la statua della Vergine. Oltrepassiamo Samaipata; siamo ormai al termine del tratto asfaltato. La strada sterrata è comunque ancora in condizioni accettabili; non così la deviazione che imbocchiamo poco prima di Mataral e che attraversando i villaggi di Pilqina e Pena Colorada, ci porta a notte fonda ad Aiquile.

Sabato 8 ottobre

Viaggiamo tutta notte, cercando di riposare nonostante i continui sobbalzi, dovuti alle condizioni del fondo stradale. Dopo aver attraversato la Sierra de Catatiri, all’alba giungiamo a Puente Arce; qui ha inizio la nuova strada tuttora in costruzione con il fondo in parte in cemento ed in parte in asfalto. Alle 8.30, dopo 16 ore di viaggio giungiamo al terminal di Sucre; in taxi ci facciamo portare in hotel. Dopo una doccia, siamo pronti per visitare la “ciudad blanca”, così chiamata per il colore di case, palazzi e chiese. Mentre ci dirigiamo verso il centro storico, vediamo alcune persone con gli abiti tradizionali all’ingresso del palazzetto dello sport di Plazuela Zudanez. Entriamo a curiosare, il Vescovo sta celebrando la S. Messa. Ci facciamo largo fra la folla e saliamo su una tribuna; si sta celebrando un matrimonio collettivo a cui partecipano, ci dicono, 145 coppie di sposi provenienti dai villaggi della regione. La cerimonia è assai folkloristica e suggestiva. Al termine della funzione assistiamo ad un interminabile e variopinto corteo nuziale con gli sposi accompagnati dai familiari anch’essi con gli abiti tradizionali delle grandi occasioni. Raggiungiamo Plaza 25 de Mayo; qui si trovano la casa della Libertad, l’edificio in cui nel 1825 fu firmata la dichiarazione di indipendenza della Bolivia, – oggi museo – la Cattedrale, e l’ex palazzo del governo. Ci rechiamo al mercato, al convento di S.Felipe Neri e quindi alla chiesa de la Merced, considerata una delle chiese più belle di tutta la Bolivia con un pregevole altare barocco decorato con filigrana e intarsi d’oro.

Domenica 9 ottobre

Oggi è giorno di mercato a Tarabuco. Alle 8, il taxista, un anziano signore, che ieri ci aveva condotto in albergo dal terminal degli autobus e con cui abbiamo concordato di effettuare l’escursione odierna, è di fronte al nostro hotel. Impieghiamo circa un’ora e mezza per percorrere fra nuvole basse e nebbia i 65 chilometri che dividono Sucre da Tarabuco. Sotto la pioggia ci incamminiamo per le strette viuzze acciotolate del villaggio occupate da bancarelle e venditori improvvisati. Siamo a 3300 metri d’altitudine, il freddo è pungente. Da camion e vecchi autobus, alcuni campesinos scaricano le proprie mercanzie. Il mercato sta cominciando ad animarsi. La gente, autentica espressione del folklore locale, è vestita con i costumi tradizionali. Gli uomini indossano “ponchos” multicolori e a tracolla portano le “chulpas”, borse in tessuto contenenti foglie di coca. In testa indossano i “monteras” (conosciuti anche con il nome di “morriones”), copricapo in cuoio molto particolari, diretti discendenti degli elmi dei conquistadores spagnoli. Non meno interessanti le donne; alcune indossano un pesante scialle di colore scuro con inserti colorati ed un curioso cappello cilindrico adornato da un pennacchio di lana ed una visiera di perline. Visitiamo il museo dei tessuti di Candelaria, ed alle 13, quando il mercato comincia a svuotarsi decidiamo di fare ritorno a Sucre. Abbassandoci di quota, usciamo dalla cappa di nubi; possiamo così vedere l’insieme di montagne, fra cui la Cordillera de los Frailes, che fanno da cornice a Sucre. Rientrando in città, ci fermiamo a La Recoleta, convento francescano, oggi anche museo, costruito su una collina da cui si gode una splendida vista sulla città. Entriamo nel convento; in uno dei chiostri, un cedro millenario dalle dimensioni gigantesche, ultimo superstite dei cedri che in passato crescevano numerosi a Sucre. Ci rechiamo in chiesa ad ammirare il coro, magnifico esempio di scultura lignea risalente al XIX° secolo; quindi al museo. La visita, sotto la guida di un giovane frate francescano, si rivela molto interessante; oltre a moltissimi quadri a tema religioso dipinti nei secoli scorsi, sono esposti reperti archeologici incaici, mobili ed arredi dei secoli XVI° e XVII°, oggetti ed attrezzi provenienti dalle tribù amazzoniche convertite o visitate dai missionari francescani.

Lunedì 10 ottobre

Telefoniamo alla Taca per avere notizie sul nostro bagaglio, purtroppo non è ancora stato spedito a Santa Cruz. Dopo esserci recati a fare acquisti per rimpiazzare quanto ci necessita e che essendo nel bagaglio smarrito non abbiamo più con noi, contattiamo un taxi collettivo e partiamo per Potosi. La strada costruita di recente è in ottime condizioni. Attraversato il rio Pilcomayo, iniziamo la salita che dai 2800 metri di Sucre ci porta agli oltre 4000 metri dell’altipiano; in poco più di due ore siamo a Potosi, sovrastata dal Cerro Rico imbiancato di neve. Le miniere d’argento di questa montagna, che a caro prezzo, (8 milioni di persone fra indios e schiavi provenienti dall’Africa vi sono morte nel corso dei secoli) hanno riempito i forzieri del regno di Spagna, sono indissolubilmente legate alla storia e alla fortuna di Potosi. L’altitudine con i suoi 4100 metri si fa sentire; lentamente passeggiamo per le strette stradine della città, ricca di chiese e palazzi, che conobbe grande splendore tra il XVI° e il XVIII° secolo. Passiamo di fronte alla Cattedrale ed alla Casa de la Moneda, oggi entrambe chiuse; attraversata la zona del mercato ci rechiamo alla chiesa di S. Lorenzo di Carangas con la facciata impreziosita da un bel portale in stile barocco mestizo. Scendendo lungo calle Chicas giungiamo al Convento di S.Teresa, fondato nel 1685 da un gruppo di suore carmelitane. Abitato ancora oggi da 8 suore di clausura, – all’ingresso è tuttora visibile il cancello rotante in legno che metteva al riparo da ogni contatto le suore dal mondo esterno – il convento ha una parte adibita a museo. Sono esposte innumerevoli e pregevoli opere d’arte sacra e quadri a tema religioso dipinti tra il XVI° ed il XIX° secolo da pittori noti ed anonimi. Al termine della visita, Daniela e Roberto rientrano in hotel a causa del soroche, il mal d’altitudine. Noi ci dirigiamo alla chiesa di S. Juan de Dios, costruzione in mattoni crudi del 1600, una delle 16 chiese di Potosi, per poi passeggiare nel centro storico ed ammirare gli antichi palazzi dalle facciate decorate e con balconate chiuse in legno che si affacciano sulle strette e ripide vie cittadine.

Martedì 11 ottobre

Usciamo di buon ora; desidero contattare alcune agenzie per effettuare la visita alle miniere d’argento del Cerro Rico. Daniela e Roberto non stanno ancora bene e decidono di rinunciare; anche Adriana che teme di soffrire di claustrofobia, preferisce far loro compagnia. Decido di fare l’escursione da solo. Nella piazza incontriamo Franca e Renato, svizzeri, residenti in Canton Ticino che alloggiano nel nostro albergo; hanno prenotato un’escursione per stamane alle 9. Mi unisco al loro gruppo. Lasciati gli uffici dell’agenzia, ci rechiamo in una vicina abitazione, dove ci vengono consegnati cerata, stivali e caschetto dotato di lampada con alimentatore a batteria. Vestiti da minatore, in minibus saliamo ai piedi del Cerro Rico. Strada facendo ci fermiamo al mercato “minero”, il luogo dove i minatori, prima di andare al lavoro, acquistano foglie di coca, bibite, sigarette, dinamite. Anche noi facciamo altrettanto; è ormai abitudine consolidata portare degli omaggi, ai lavoratori che incontreremo nella miniera. Cominciamo la nostra visita dalla parte finale del ciclo estrattivo; in una rustica costruzione fra inesistenti misure di sicurezza, assistiamo alla separazione dell’argento e degli altri minerali (rame e stagno) dagli scarti della lavorazione tramite un processo chimico a base di cianuro. Entrati nella zona estrattiva, imbocchiamo una delle piste che inerpicandosi sul fianco della montagna permette di raggiungere gli ingressi delle varie miniere. Quella in cui stiamo per entrare e che attualmente da lavoro a circa 400 persone è posta a circa 4500 metri; dallo spiazzo antistante, si gode di una magnifica vista su Potosi, sulla zona mineraria sottostante, sui laghi artificiali di Kari – Kari, scavati nel XVI° secolo per creare riserve d’acqua per la città, e sulle montagne circostanti imbiancate di neve. Dopo le ultime raccomandazioni della guida che ci accompagna, entriamo. L’ingresso è angusto e basso, dobbiamo camminare chinati fra i travi che sostengono la volta della galleria ed i tubi per l’aria compressa che alimentano i martelli pneumatici. Dopo 2/300 metri possiamo proseguire eretti, camminiamo sulle rotaie dei vagoncini che trasportano il materiale all’esterno, fra acqua e fango. Il terreno è molto scivoloso. Ogni qualvolta udiamo lo sferragliare del vagoncino ci dobbiamo appiattire contro le pareti della galleria o correre verso qualche anfratto più spazioso per consentire il passaggio del carrello, che trainato correndo, da minatori giovanissimi, trasporta il materiale verso l’uscita. Al 1° livello dove le gallerie sono più anguste, i carrelli possono trasportare 1 tonnellata di materiale; arrivano a pesare il doppio ai livelli inferiori dove le gallerie sono più ampie. Strisciando in alcuni angusti passaggi di collegamento scendiamo fino al 3° livello. Fa molto caldo; la temperatura supera i 30° gradi, le cerate ci fanno sudare. L’aria, è irrespirabile per la presenza di gas e polvere. Incontriamo i primi mineros; hanno le guance gonfie e le labbra nere per le foglie di coca che masticano in continuazione. Con martello e scalpello, in un angusto cunicolo stanno facendo dei fori in cui piazzare la dinamite. Altri minatori al punto di raccolta del materiale situato al 3° livello, riempiono grossi recipienti fatti con copertoni di camion; trascinati da verricelli elettrici o manuali, lungo ripidi camini permettono di far salire il materiale estratto al livello superiore. Risalendo verso l’uscita, giungiamo in una grotta in cui è posizionata la statua del diavolo, ritenuto dai mineros il proprietario di ciò che loro estraggono dalle viscere della Pachamama, la madre terra. Quando entrano in miniera, i minatori si prostrano di fronte alla statua e chiedono benevolenza e protezione, offrendo in cambio foglie di coca, alcool, e sigarette. Dopo oltre 2 ore di permanenza all’interno di questo posto incredibile, provati dal caldo, dalla polvere, dall’altitudine e dalla fatica di muoverci in un ambiente difficile ed ostile, riguadagnamo l’uscita. Lo sbalzo termico è terribile. Sta nevischiando. Ridiscesi in città e riconsegnata l’attrezzatura, alle 14 sono all’agenzia dove Adriana, Daniela e Roby mi stanno attendendo. Rientro in hotel, doccia bollente e di corsa alla Casa Real de la Moneda, che ospita uno dei musei più interessanti del Sud America. Alle 14.30 inizia la visita guidata di questa imponente costruzione dai muri spessi oltre un metro, che nei secoli non solo hanno protetto l’attività della zecca ma anche assolto alle funzioni di prigione e fortezza. Oggi vi sono esposte vecchie monete, macchinari usati per il conio delle stesse, dipinti, reperti archeologici, ceramiche ed argenti che hanno fatto la storia della Bolivia.

Mercoledì 12 ottobre

Con un autobus della compagnia O’Globo, lasciamo Potosi. Dopo un ultimo sguardo al Cerro Rico punteggiato da centinaia di miniere, ci troviamo a percorrere un vasto altipiano; lungo la strada, per un breve tratto asfaltata, sperduti casolari e greggi di lama al pascolo. Scendiamo ad una quota di circa 3000 metri, il paesaggio è diverso ma sempre spettacolare. In un continuo saliscendi tra colline rocciose ricoperte da bassi arbusti, giganteschi cactus e qualche rado albero, attraversiamo piccoli e polverosi villaggi dalle misere case in mattoni di terra e paglia. Giungiamo a Cotagaita; una balestra dell’autobus ha ceduto e mentre gli autisti provvedono a farla riparare, approfittiamo della sosta per uno spuntino. Dopo quasi 8 ore di viaggio arriviamo a Tupiza. Distesa lungo le rive del rio omonimo deve il suo fascino ai paesaggi che la circondano: canyon, quebradas (letti di fiumi in secca), crinali erosi da vento e pioggia, rocce multicolori dalle forme più disparate che evocano paesaggi ed atmosfera da Far West. Fu proprio su queste colline che i famosi banditi Butch Cassidy & Sundance Kid, terminarono la loro esistenza dopo una rapina. Ci rechiamo alla Tupiza tours per definire con Fabiola Mitru, già contattata via internet, i programmi di viaggio dei prossimi giorni, quindi saliamo al Cerro Corazon de Jesus; terrazza panoramica sulla città e sulla Cordillera de Chichas, le cui rocce, dai colori incredibili che variano dall’ocra al rosso, dal marrone al seppia, dal verde al blu, al grigio, si infiammano nella calda luce del tramonto.

Giovedì 13 ottobre

Ci rechiamo negli uffici della Tupiza tours. Dopo aver definito gli ultimi particolari, Fabiola ci presenta Nelson; sarà il nostro autista e guida nel giro odierno alle quebradas ed in quello successivo alle lagune nella regione de Los Lipez. In fuoristrada raggiungiamo la quebrada di Palmira, un vallone creato dal letto in secca di un fiume attorniato da montagne spettacolari. Ad un tratto di fronte a noi, la ” Puerta del Diablo”, costoni rocciosi simili a lame di coltello che si ergono a lato del letto del fiume in una radura sassosa punteggiata di cactus ed arbusti; poco oltre, in un ansa, la ” Valle de los Machos”, formazioni rocciose che ricordano i “Camini delle Fate” della Cappadocia. Proseguiamo nella vallata fino al “canyon del Inca”; quindi ritornati sui nostri passi, dopo aver attraversato la Quebrada Seca, ci adddentriamo a piedi fra le pareti strapiombanti del “canyon del Duende”. Nelson decide di portarci in un punto panoramico per consentirci di ammirare dall’alto le formazioni rocciose di Toroyoj, che si ergono lungo il corso del rio S. Juan de Oro; una è particolarmente curiosa, è chiamata “la Testa del Inca” per la straordinaria rassomiglianza con il volto di un essere umano. Nella vallata, alcuni condor volteggiano nel cielo azzurro alla ricerca di prede. Attraversato il piccolo villaggio di Palquiza, ritorniamo verso Tupiza percorrendo la strada che conduce a Villazon, città al confine con l’Argentina. Proseguiamo verso Uyuni, ci fermiamo a La Poronga, località che prende il nome da una roccia dalla forma fallica che si erge lungo la strada poco oltre il villaggio di Charahota. Fanno da sfondo, colline dai colori straordinari: blu, verdastre, rosse, viola; colorazione dovuta alla presenza di differenti minerali. Facciamo ritorno a Tupiza; è giorno di mercato ed Adriana e Daniela, ne approfittano per acquistare le bombette che indossano le “cholitas”, le donne quechua ed aymara.

Venerdì 14 ottobre

Dopo una passeggiata mattutina per le tranquille vie cittadine, ritorniamo all’hotel. Caricati sul fuoristrada i nostri bagagli, passiamo dagli uffici della Tupiza tours dove ci stanno aspettando Julio, un ragazzo tedesco di origini ispano-boliviane che farà il giro nel Lipez con noi, ed Elizabeth “la cocinera”, colei che ci preparerà i pasti durante il tour. Oltrepassato il posto di polizia situato alla periferia di Tupiza, ci fermiamo alla quebrada di Palala, un deposito alluvionale disseminato di formazioni rocciose rossastre a forma di pinna. Lasciato il letto del fiume, la pista comincia a salire con stretti tornanti lungo il crinale della montagna. In una dozzina di chilometri siamo in un punto panoramico posto a 3750 metri, da cui si gode una vista mozzafiato su “El Sillar”, un vasto anfiteatro formato da concrezioni rocciose a forma di guglia e da canyons. Un luogo incredibile. Dopo aver superato un passo a 4200 metri, costellato di ingressi di vecchie miniere, d’oro, d’argento e rame, tuttora in attività, scendiamo verso l’altipiano tra brulle montagne ricoperte da bassi arbusti e grossi ciuffi di erba gialla chiamata “paja brava”, utilizzata per ricoprire i tetti delle case. I paesaggi sono stupefacenti; a Cerrillos, piccolo “pueblo” di 75 anime, facciamo una sosta nella piazza della chiesa. Alcuni bambini ci osservano incuriositi; Franklin, un bimbetto di due anni, seduto accanto alla sua mamma, è intimorito dalla nostra presenza. Attraversato il villaggio di Poululos, scendiamo in una larga vallata attraversata da un piccolo fiume, sulle cui rive sorge S. Pablo de Lipez. Un’ora di strada ci separa da S. Antonio, villaggio a 4200 metri d’altitudine ai piedi del monte Lipez, in cui trascorreremo la notte. Dopo circa 270 chilometri di pista sterrata, ci giungiamo alle 16.30. Preso possesso della camera a 4 letti, nel rustico rifugio gestito dalla comunità locale, usciamo per le strade polverose del villaggio; veniamo subito avvicinati da alcuni ragazzini che ci chiedono di disputare una partita di calcio. Li accontentiamo; nonostante la consistente differenza di età, l’altitudine e le difficoltà respiratorie dovute alla scarsità d’ossigeno, riusciamo a concludere, dignitosamente, il match in parità.

Sabato 15 ottobre

Nonostante la temperatura assai rigida, mi arrampico sulla collina che domina il villaggio, per scattare alcune foto, mentre il sole, entrando nella valle comincia a riscaldare le case di terra e paglia ed i suoi 250 abitanti. Il ghiaccio sulle rive del ruscello che scorre fra le case del villaggio scintilla ai primi raggi di sole. Passeggio per le vie del paese; in un cortile sul cassone di un vecchio camion decine di bistecche di lama, messe ad essicare. Alle 8.15 ci rimettiamo in viaggio; costeggiando le pendici del monte Lipez, giungiamo a S.Antonio Vejo, antico borgo minerario sorto ai tempi dei colonizzatori spagnoli, da decenni abbandonato. E’ un villaggio fantasma; la chiesa, il piccolo cimitero, le case, costruite in pietre a secco stanno crollando. Tra panorami fantastici, circondati da montagne ricoperte da bassi arbusti e dai soliti cespugli di paja brava, riprendiamo a salire. Giungiamo al valico posto a 4860 metri d’altitudine; di fronte a noi, una splendida veduta della vallata sottostante dominata dai picchi innevati della Cordillera andina che si specchiano nelle acque della laguna Morejon. Scendiamo; lungo la pista, un tratturo sassoso, che conduce alla laguna Celeste, a quota 4600 metri, numerosi lama al pascolo ed un piccolo gregge di vigogne selvatiche, specie protetta in via d’estinzione. Nel silenzio, rotto solo dai sibili del vento, saliamo su un rilievo da cui si ha una splendida veduta dell’intera laguna; nella luce del pomeriggio, ci appare di un colore turchese intenso. Camminiamo lungo le rive; fenicotteri andini e cileni, incuranti del freddo, si nutrono nelle acque salmastre del lago. Lasciata la laguna, entriamo nella riserva nazionale di fauna andina Eduardo Avaroa. La pista ora sabbiosa, attraversa una zona costellata di piccoli laghi asciutti; ci dirigiamo verso la meta finale di oggi, Quetena Chico, borgo minerario ai piedi del vulcano Uturuncu. Mentre il sole sta calando dietro le montagne, passeggiamo per le vie del villaggio. Le strade sono deserte; solo alcuni bambini incuranti del freddo e del vento gelido giocano nella carcassa di un’automobile abbandonata.

Domenica 16 ottobre

Anche stanotte la temperatura è scesa di parecchio sotto lo zero. Ci scaldiamo facendo quattro passi per le vie del piccolo borgo, prima di partire verso la parte più meridionale della regione de Los Lipez, al confine con il Cile. In un’ora di viaggio siamo alla laguna Hedionda Sur conosciuta anche come laguna Negra, per la colorazione che le acque assumono all’imbrunire. Transitiamo dalla Kollpa laguna, sulle cui rive sorge un piccolo borgo di mineros che vivono estraendo cloridrato di sodio dal lago, per raggiungere il salar de Chalviri. Non è molto esteso; il sale pur avendo uno spessore limitato, è ugualmente fonte di sostentamento per la popolazione locale, che provvede a raccoglierlo in piccoli mucchi. Alla piccola laguna Polques, la strada si biforca; una pista si dirige alla laguna Colorada, l’altra al confine cileno. Imbocchiamo quest’ultima. Le colline ricoperte di arbusti e paja brava, hanno lasciato il posto ad un deserto sabbioso cosparso di grossi massi, punta avanzata del deserto cileno di Atacama. Lungo la pista, circondate da montagne innevate, le “Rocas de Dalì”, grosse rocce su un aspro pendio sabbioso, così chiamate perchè ricordano un opera surrealista del celebre pittore spagnolo. Sullo sfondo la Mina Susana, una montagna da cui si estrae lo zolfo ed il Cerro Amarillo, innevato. Scendiamo verso il confine cileno distante solo 5 chilometri; accolti da un vento gelido, che qui soffia incessantemente, ci fermiamo alla laguna Blanca, dal candido color latte. Nonostante sia mezzogiorno, l’acqua di alcune pozze è ancora gelata. Nelle vicine acque termali che sgorgano dal terreno a circa 30° gradi alcuni temerari stanno facendo il bagno. Ci spostiamo alla attigua Laguna Verde, che deve questa colorazione all’alta concentrazione di arsenico. Ci arrampichiamo su una vicina montagna ai piedi del Licancabur, imponente vulcano alto 5960 metri, per vedere lo spettacolo offerto dalle lagune, Blanca e Verde, separate da una sottile lingua di sabbia, due intense macchie di colore su una tavolozza dalle mille sfumature. Ritornati alla laguna Polques; imbocchiamo la pista diretta verso nord e superato un passo a 4960 metri, l’altitudine massima che toccheremo in questo viaggio, giungiamo ai geyser di Sol de Manana; dalle bocche viene eruttato fango bollente e vapore a temperature che variano dai 40 ai 170 gradi. Siamo a circa 4900 metri; iniziamo la discesa verso la laguna Colorada, che ci porterà a perdere 600 metri di dislivello in pochi chilometri. Dall’alto, il panorama è stupendo, la laguna è di colore rosso cupo, quasi bordeaux, per la presenza di alghe e plancton che abbondano nelle acque ricche di minerali, e che contrasta con il colore delle rive, di un bianco scintillante per la presenza di gesso e borace. Dopo aver depositato i bagagli, scendiamo alla laguna; nonostante il vento gelido ed il freddo polare, camminiamo lungo la riva, popolata da migliaia di fenicotteri delle tre specie presenti in Sud America, andina, chilensis e di James, che qui vengono a riprodursi.

Lunedì 17 ottobre

Ritorniamo alla laguna. La temperatura questa notte è scesa a – 12 gradi, l’acqua lungo la riva è gelata. I fenicotteri concentrati a causa del ghiaccio al centro della laguna, sono purtroppo molto distanti. Vista la temperatura esterna ancora abbondantemente sottozero, ci spostiamo in fuoristrada. La pista, per un lungo tratto costeggia la laguna; nella vivida luce mattutina le bianche piume dei fenicotteri, spiccano sul rosso intenso della superficie del lago. Lasciata la laguna Colorada, ci immettiamo in un ambiente ancora più arido e secco; il deserto sabbioso d’alta quota di Silioli. Ci fermiamo alla “Ciudad di piedra”, così chiamata per alcuni grossi massi dalle forme bizzarre, sculture naturali dovute all’azione erosiva del vento; tra esse l'”Arbol de Piedra”, una roccia dalle fattezze arboree. Attraverso il deserto ci spingiamo ad un gruppo di rocce conosciuto con il nome di Vizcachillas, habitat naturale della vizcacha, una specie di coniglio selvatico con una lunga coda. Usciamo dal parco nazionale di Avaroa, costeggiando le vette della Cordillera andina che fungono da spartiacque e da confine con il Cile. Il paesaggio riprende la connotazione dei giorni precedenti, basse colline con arbusti e paja brava. Giungiamo alle ultime lagune, distanti poche centinaia di metri l’una dall’altra, popolate da folte colonie di fenicotteri. Sono le lagune Ramaditas, Honda, di colore bianco con sfumature turchese, Charcota, dall’acque purpuree, ed Hedionda nord. Mentre ci spostiamo all’ultima, la laguna Canapa, due volpi attraversano la strada; sono abituate alla presenza di turisti e si fermano in attesa di cibo. Dopo un tratto di pista sassoso, assai disastrato, ci immettiamo su una strada da poco ultimata, che collega la miniera di San Cristobal al confine cileno. In lontananza il cono fumante del vulcano Ollague, ancora attivo. Dopo il salar di Chinguana, un misto di sale e terra, attraversato dalla ferrovia che collega Uyuni al Cile, giungiamo a S. Juan del Rosario, grosso villaggio ad un’altitudine di 3660 metri. Depositati i bagagli in una comoda guest-house ci rechiamo a vedere la necropoli. Su una collina, le chullpas, torri funerarie scavate nella roccia vulcanica risalenti al periodo pre-incaico (XI° secolo circa); all’interno alcune mummie poste in posizione fetale. Rientrando ci fermiamo ad approfondire quanto visto, al piccolo ed interessante museo, gestito dalla comunità locale, di Kausay Wasi, dove sono esposti i reperti archeologici trovati in zona ed appartenuti ai signori del Lipez, popolazione le cui origini ed usanze non sono ancora ben conosciute.

Martedì 18 ottobre

Sveglia nel cuore della notte. Con Nelson abbiamo fissato la partenza alle 4.15, per vedere il sorgere del sole all’isola del Pescado, nel salar di Uyuni. All’ora stabilita tutti noi siamo pronti per partire ma di Nelson ed Elizabeth nessuna traccia. Dopo aver cercato ovunque, troviamo Nelson, in una branda in cucina, ubriaco. A fatica, riusciamo a svegliarlo e a tirarlo in piedi; Elizabeth, in un altra stanza, è anche lei in condizioni assai precarie. Solo dopo un’ora, grazie anche all’aria gelida della notte, riusciamo a farlo riprendere e partire. Quando, dopo una corsa notturna giungiamo all’isola del Pescado il sole è già sorto. Saliamo sul punto più alto dell’isola, per ammirare lo splendido scenario che si para ai nostri occhi e che ci ripaga del freddo (- 15°) e della levataccia. Centinaia di cactus di ogni dimensione e colore crescono fra le rocce dell’isola che si erge da questo mare bianco costituito da mattonelle di sale dalla forma esagonale, la più vasta pianura salata al mondo, (ben 12.000 kmq) a 3650 metri d’altitudine. Facciamo il periplo dell’isola camminando sulla distesa di sale al tepore dei raggi del sole, ormai alto nel cielo. Alle 9.30, ripartiamo; sono 92 i chilometri da percorrere sulla superficie salata e che separano l’isola dal primo albergo di sale costruito sul salar, ora trasformato in una sorta di museo per evidenti problemi di inquinamento alla superficie salata che lo circonda. Mentre stiamo per entrare, un aereo Cessna a 6 posti, con alcuni turisti, atterra e parcheggia accanto alle jeep. Ci dirigiamo verso Uyuni; prima di lasciare il salar, passiamo accanto a pozze d’acqua chiamate gli “ojos del salar”, aperture che fredde acque sotterranee si sono create attraverso la strato di sale e che gorgogliando emergono in superficie. Transitiamo per le vaste saline di Colchani, alcuni uomini stanno ammassando il sale in grossi mucchi per caricarlo su vetusti autocarri. Ci portiamo al villaggio; qui il sale dopo essere stato scaricato, viene iodizzato ed insaccato con rudimentali macchinari. Prima di giungere ad Uyuni facciamo una breve deviazione per recarci a vedere il “cementerio de trenes”, un deposito dove vecchie locomotive a vapore e vagoni ferroviari abbandonati, sono lasciati arrugginire. In città, ci facciamo lasciare ad un hostal; salutati Elizabeth e Nelson, che rientrano a Tupiza, e Julio che domani raggiungerà Potosi in autobus, andiamo a cercare un mezzo per raggiungere La Paz. Purtroppo il treno che speravamo di prendere, è bloccato a Tupiza dai “bloqueos”, blocchi effettuati dalla popolazione, che chiede al governo la costruzione di una nuova strada fra Tupiza ed Uyuni. Riusciamo a trovare posto su un autobus della “Flota 16 de Julio” che parte alle 20 per Oruro e La Paz.

Viaggio in Bolivia: dall'Amazzonia alle Ande
Foto di flyingmozart da Pixabay

Mercoledì 19 ottobre

Viaggiamo tutta notte. La strada pur essendo sterrata è in condizioni abbastanza buone e riusciamo a riposare, nonostante la scomodità dei sedili. Alle 4.30 siamo al terminal di Oruro; dopo una breve sosta per far scendere alcuni passeggeri, ripartiamo. Lasciando la città ad un incrocio, per una mancata precedenza abbiamo un incidente con un altro autobus; il nostro ne esce abbastanza malconcio nella parte anteriore, la porta è fuori uso ed il parabrezza a pezzi. Lentamente ritorniamo al terminal, dove provvedono a trovarci un altro mezzo. Trasbordati i bagagli, ripartiamo con un’ora di ritardo; alle 9 siamo al terminal della capitale. Per la prima volta, mentre ci dirigiamo verso il centro di La Paz, dal bordo dell’ampio canyon, ci appare la vista fantastica ed incredibile della città, con i quartieri residenziali ed i moderni grattacieli dalle pretese avveniristiche sul fondo della vallata. Con un taxi ci facciamo portare in hotel; decidiamo di riposarci un paio d’ore. Nel pomeriggio, mentre Roberto prosegue la siesta, usciamo per un primo contatto con la vita di La Paz. Scendiamo verso plaza S.Francesco; sui marciapiedi, brulicanti di passanti, le “cholitas”, le donne quechua o aymara che indossano gli abiti tradizionali, vendono fiori e ortaggi. Dopo aver effettuato alcuni acquisti, Adriana, febbricitante, e Daniela rientrano in hotel. Mi rivolgo ad un paio di agenzie, per cercare i voli per Rurrenabaque. Le avverse condizioni meteo di questi ultimi giorni, nel bacino amazzonico, hanno costretto Amazonas, la compagnia privata che effettua il servizio con piccoli aerei da 12 posti a sospendere i voli; gli unici posti disponibili sono sul volo di sabato della TAM, Transportes Aereos Militares, la compagnia aerea delle forze armate.

Giovedì 20 ottobre

Mentre tutti rimangono in albergo, mi reco all’aeroporto di La Paz, dove all’ufficio della Taca, dopo 16 giorni, finalmente, recupero il bagaglio, che stamane Mauricio mi ha inviato con il primo volo del mattino da Santa Cruz. Ritorno in hotel, depositato il bagaglio, usciamo a visitare la città. Attraverso calle Sagarnaga, raggiungiamo il “mercado de brujos “, il mercato delle streghe; sulle bancarelle fra erbe e strane pozioni notiamo becchi di uccelli rinsecchiti, feti di lama e statue della Pachamama. Camminando per ripide strade affollate, ci inoltriamo nel Mercado Negro, un fitto labirinto di bancarelle, con merce d’ogni sorta. Lasciamo la parte più folkloristica e caratteristica della città per quella più moderna; ci tuffiamo nell’animata Avenida El Prado, l’arteria commerciale con uffici, negozi e prestigiosi hotels, che percorriamo fino a plaza del Estudiante, dove avveniristiche costruzioni riflettono l’immagine del monumento a Simon Bolivar, l’artefice dell’indipendenza boliviana. Ritornando verso l’hotel, visitiamo la chiesa di S. Francesco, bella costruzione in pietra del XVI° secolo, che contrasta con il bizzarro monumento dedicato alle tre grandi civiltà boliviane, tiahuanaco, inca e moderna che la fronteggia nella parte alta della piazza.

Venerdì 21 ottobre

Usciamo di primo mattino, ed in attesa che Daniela e Roberto siano pronti, giriamo per il mercado Rodriguez, il mercato alimentare adiacente l’hotel, che comincia ad affollarsi. Ritorniamo al Mercado Negro, in uno dei quartieri più vivi della città, affollato di passanti e venditori per poi scendere, ai giardini di plaza Mendoza. Ai piedi del monumento dedicato ad Alonzo di Mendoza, il fondatore nel 1548 della città, fotografi ambulanti con antiquate macchine fotografiche attendono i clienti, mentre giovani cholitas, avvolte in eleganti scialli dai colori vivaci e con le immancabili bombette in testa, si godono come noi, la bella giornata di sole. Scendiamo verso calle Commercio, animata via commerciale nella zona pedonale. Ci fermiamo negli affollati giardini di plaza Murillo, attorno a cui si ergono la Cattedrale, massiccia costruzione con maestose colonne ed una cupola imponente che contrastano con un interno molto semplice, quasi spoglio; il palazzo Legislativo ed il palazzo del Presidente della Repubblica. A fianco della Cattedrale, il Mausoleo, con la tomba di Andres de Santa Cruz, colui che gettò le basi della Bolivia odierna. All’angolo della piazza, il bellissimo Palazzo de los Condes de Arana, in granito rosa, che ora ospita il Museo nazionale dell’arte.

Sabato 22 ottobre

C’è grande animazione nelle vie adiacenti l’hotel; è giorno di mercato e la sede stradale è invasa da fiori, verdure ed ortaggi disposti a terra in mucchi ordinati. A piedi usciamo dal mercato e ci mettiamo alla ricerca di un taxi per raggiungere la base militare, adiacente l’aeroporto internazionale, da cui partono i voli TAM. Conosciuta la destinazione, il taxista, ci riferisce che l’autostrada per El Alto, è bloccata dai “bloqueos del gas”; unica alternativa sono le strade che ripide salgono verso l’altipiano attraverso i quartieri periferici. Purtroppo, il taxi su cui siamo saliti, ha problemi al motore, e non riesce ad affrontarle; siamo obbligati a cercarne un’altro. A qualche centinaio di metri da El Alto ci troviamo intrappolati da un altro “bloqueo”; la circolazione è paralizzata; estendendo il blocco anche a questa strada, La Paz è ormai isolata dall’altopiano. Sono quasi le 8, non abbiamo tempo da perdere; decidiamo di scendere e di proseguire a piedi con gli zaini a spalla. Facendoci largo tra la gente ed i manifestanti seduti a decine in mezzo alla strada, sulle bombole del gas, superiamo il “bloqueo” e ci mettiamo alla disperata ricerca di un terzo taxi per raggiungere l’aeroporto. L’altitudine, il peso degli zaini e la ripida salita che abbiamo affrontato con passo deciso ci hanno tagliato le gambe. Rintracciamo un tipo sveglio, che capita la nostra urgenza, aggirando altri blocchi ci porta alla base militare. Con notevole ritardo ci presentiamo al check-in; non siamo gli ultimi, altri passeggeri, trafelati arrivano dopo di noi. Alle 9 possiamo imbarcarci; l’aereo, è un turbo elica abbastanza vissuto, adattato al trasporto civile, con una trentina di posti per i passeggeri. Sorvolata la capitale, ci alziamo lentamente di quota per superare la Cordillera Real; improvvisamente sotto di noi le Yungas e la foresta amazzonica, un immenso mare verde attraversato da corsi d’acqua color ocra. Dopo un’ora di volo atterriamo sulla pista in terra di Rurrenabaque, piccola cittadina adagiata sulle rive del rio Beni. Lo sbalzo termico è notevole; la temperatura supera abbondantemente i 30 gradi ed il tasso d’umidità è altissimo. Dopo esserci recati in alcune agenzie, già contattate tramite e-mail, decidiamo di confermare il tour di tre giorni nella pampa alla Fluvial tours, prima di ritornare in hotel e rilassarci sulle amache nello splendido giardino alberato.

Domenica 23 ottobre

Usciamo come d’abitudine di primo mattino. La piazza su cui si affaccia il nostro albergo, è affollata di bambini e campesinos; nei loro abiti migliori, si stanno recando in chiesa per assistere alla S.Messa domenicale. Alle 8 siamo negli uffici della Fluvial tours, dove facciamo conoscenza con gli altri componenti del gruppo, una ragazza svizzera, Sabine, ed una coppia di australiani da 7 mesi in giro per il Sud America. Seduti su scomodi sedili a panca nella parte posteriore di un vecchio fuoristrada Toyota, partiamo per il Parco nazionale del Madidi. Dopo tre ore di viaggio su una pista sconnessa e polverosa giungiamo a Santa Rosa; pagato il biglietto d’ingresso al parco e trasferito tutto l’equipaggiamento, viveri compresi, su una lancia a motore, iniziamo lentamente, la risalita del rio Yacuma. Tortuoso, si snoda in mezzo ad una fitta vegetazione fra uccelli colorati che cinquettano sui rami degli alberi, tartarughe di ogni dimensione che si crogiolano al sole su tronchi semi-sommersi ed alligatori che sonnecchiano all’ombra di frondosi cespugli. Vediamo per la prima volta, il capibara, un erbivoro di grandi dimensioni, dal pelo lungo e con un muso simile al castoro. Dopo quasi 3 ore di navigazione, sbarchiamo nello spartano campo della Fluvial tours. Depositati nel dormitorio gli zaini, riprendiamo per un breve tratto la risalita del fiume; ci fermiamo in uno spiazzo erboso nella pampa, dove pascolano mucche e cavalli per assistere al tramonto, che non ci sarà in quanto il cielo, all’improvviso, si rannuvola. Dopo cena, nella notte rischiarata da uno stupendo cielo stellato, usciamo in barca, per vedere gli occhi degli alligatori che illuminati dalla luce delle torcie, si colorano di rosso; ne contiamo a decine, in acqua e sulle rive, pronti a tuffarsi alla ricerca di cibo.

Lunedì 24 ottobre

Poco prima dell’alba sono gli schiamazzi delle scimmie ed il canto degli uccelli a darci la sveglia. Già ieri sul fiume avevamo avuto un incontro ravvicinato con due tipi di scimmie: la scimmia cappuccino e la scimmia chichillos; la prima, più grande di colore marrone chiaro con il muso nero, la seconda molto più piccola, di colore giallo. All’alba sono in riva al fiume per godermi la tranquillità ed il silenzio della foresta; le zanzare che a migliaia ci stanno letteralmente massacrando, nonostante gli indumenti ed i repellenti, a qualunque ora del giorno e della notte, danno un attimo di tregua. Alle 8 siamo pronti per partire per un’escursione alla ricerca dell’anaconda, il serpente più grande al mondo che può raggiungere i 12 metri di lunghezza. Percorso un breve tratto in barca, ci inoltriamo nella pampa; seguendo la guida avanziamo attraverso una fitta vegetazione erbacea alta un paio di metri. Dopo circa mezz’ora di cammino, arriviamo in una palude con basse piante acquatiche, l’habitat in cui vive l’anaconda; Adriana in crisi per le difficoltà che incontriamo nell’avanzare, non vuole più proseguire e decide di farsi riportare al campo. Al ritorno della guida, riprendiamo la ricerca; dopo circa due ore di marcia estenuante tra erbe altissime ed acquitrini, in cui l’acqua è più alta degli stivali che indossiamo, giungiamo ad una laguna. Qui l’acqua arriva quasi alla cintola; ci rifiutiamo di proseguire, la nostra guida decide di continuare la ricerca, finora infruttuosa, da sola, mentre noi staremo ad aspettarlo per quasi due ore sotto il sole cocente. Durante la sua assenza, sopraggiunge un gruppo di un’altra agenzia; la loro guida è più fortunata e trova nelle vicinanze un’anaconda di circa due metri; dalle urla di giubilo di colui che ha trovato il serpente e le espressioni di rabbia ed amarezza delle altre guide, capiamo che riuscire a rintracciare un’anaconda è solo una questione di prestigio personale per chi la trova, e per le agenzie, una foto in più da mostrare ai futuri visitatori. Ritornando al fiume, attraversiamo un tratto di giungla; al nostro sopraggiungere vediamo levarsi in volo il condor della pampa mentre a terra tra la vegetazione giacciono gli scheletri di alcuni piccoli serpenti. Finalmente alle 13, sudati, bagnati, infangati, stravolti da un caldo opprimente ed assediati dalle zanzare che mai ci hanno dato requie, raggiungiamo il campo. Dopo una doccia ristoratrice ed una meritata siesta, usciamo nuovamente in barca, la temperatura è ancora elevata e molti animali cercano sollievo alla calura sotto la vegetazione; ci portiamo alla confluenza di due fiumi, in un tratto in cui stazionano abitualmente delfini grigi e rosa, assai frequenti nei fiumi amazzonici. Numerosi, con i piccoli al fianco nuotano vicino alla barca, ad Adriana, a Sabine ed agli australiani che stanno facendo il bagno; in questo luogo, le acque sono sicure, per salvaguardare l’incolumità dei propri piccoli, i delfini, tengono lontano caimani, alligatori, anaconde, e piranha. Ritornando al campo, ci fermiamo ad assistere al tramonto, ancora una volta, velato da nubi all’orizzonte. Dopo cena, sotto un incredibile cielo stellato, in cui risalta per intensità luminosa la via Lattea, ci sistemiamo sulle amache; nel silenzio della notte, si ode solo il rumore sordo dei tuffi degli alligatori che si buttano in acqua dalle rive nei pressi del campo.

Martedì 25 ottobre

Usciamo in barca e risaliamo il rio Yacuma nella speranza di avvistare altri animali. Ci sorprende la quantità di uccelli, alcuni dei quali endemici, che popolano la folta vegetazione; dal javiri, al coloratissimo uccello del paradiso, dal martin pescatore all’aquila pescatrice, dalle garze agli aironi, ai coloratissimi pappagalli e molti altri ancora che non conosciamo. Ci imbattiamo in alcuni alligatori di notevoli dimensioni, nei delfini con cui anche oggi giochiamo in un ansa del fiume ed in un gruppo di capibara; sono circa una trentina ed oltre al maschio dominante, riconoscibile per un rigonfiamento sul naso, contiamo 2/3 femmine ed una nutrita schiera di cuccioli, (nascono ogni 6 mesi) provenienti da cucciolate differenti. Rientrati al campo, alle 13 partiamo per Santa Rosa, dove ci sta aspettando il fuoristrada che ci riporterà a Rurrenabaque.

Mercoledì 26 ottobre

Facciamo ritorno a La Paz. Abbiamo deciso di rientrare via terra, per poter percorrere la “strada più pericolosa del mondo”. Per evitare rischi inutili, decidiamo di utilizzare un fuoristrada e tramite la Fluvial tours contattiamo Luis che da più di vent’anni effettua quasi giornalmente questo percorso. Alle 5.45 con il suo Toyota Land Cruiser lasciamo Rurrenabaque in direzione di Yocumo; la pista, è un taglio netto in mezzo alla pampa, che in molti tratti è stata disboscata e data alle fiamme per far posto ad allevamenti di bovini ed a nuove terre da coltivare. In lontananza cominciano a profilarsi montagne e colline rivestite da una fitta vegetazione tropicale; le Yungas, la zona compresa tra gli altipiani e le umide pianure del bacino amazzonico. Dal km.52, posto di controllo della polizia contro il narcotraffico, la strada comincia a farsi più pericolosa, i primi strapiombi neppure troppo profondi sono un piccolo antipasto di ciò che ci attende più avanti. Per lunghi tratti, i più esposti, la circolazione avviene a senso inverso; salendo a La Paz si viaggia a sinistra costeggiando la montagna, si ha sempre diritto di precedenza ed in caso di incrocio con un altro veicolo, tocca al mezzo che scende, fare retromarcia, per permettere il passaggio, a chi sale. Dopo Caranavi, la strada si fa più stretta e tortuosa, si viaggia a mezza costa seguendo il corso del rio Coroico che scorre a fondo valle. E’ la vera anteprima della “strada della morte”, così ci riferisce Luis, gli strapiombi qui sono solo meno profondi (2/300 metri). Giungiamo a Yolosa; in alto, abbarbicata sul fianco della montagna, tra piantagioni di caffè, cacao e coca, vediamo Coroico. Qui inizia il tratto conosciuto come “la strada più pericolosa del mondo”. Il fondo stradale alquanto rovinato, la pioggia sempre più insistente a cui si è aggiunta la nebbia, ci costringono a viaggiare a passo d’uomo; siamo spesso fermi per consentire ai numerosi mezzi, autocarri ed autobus, che incrociamo, di fare manovra per lasciar passare noi ed i mezzi che seguono. Il percorso è molto affascinante, ma nella nebbia e nell’oscurità ormai imminente, vediamo assai poco; lungo la salita, Luis ci indica i luoghi dove più alti sono gli strapiombi, profondi anche 1000 metri, e dove sono avvenuti gli incidenti più gravi, con decine di morti, a causa di mezzi precipitati nel baratro. La strada, un taglio netto nella roccia della montagna, senza protezione alcuna, costellata nella parte centrale da cascate che si riversano sulla stretta sede stradale, in soli 80 chilometri permette di superare 3000 metri di dislivello. Quando giungiamo al passo di El Cumbre, a 4600 metri d’altitudine sulla Cordillera Real, è ormai buio; la nebbia si è diradata, dal cielo cade neve frammista a pioggia. Purtroppo non possiamo vedere i panorami sulle vette della Cordillera Real, ma solo le luci di La Paz, dove arriviamo dopo 13 ore di viaggio.

Giovedì 27 ottobre

Dopo aver acquistato i biglietti all’agenzia situata a fianco del nostro hotel, partiamo in autobus per Copacabana, sulle sponde del lago Titicaca, enorme specchio d’acqua sull’altipiano, a 3800 metri d’altitudine. Ci appare all’improvviso, fra canneti di totora, una canna usata fino a pochi anni orsono per costruire piccole imbarcazioni usate per la navigazione. Lo costeggiamo fino allo stretto di Tiquina, che attraversiamo, noi passeggeri su una piccola imbarcazione e l’autobus su una chiatta. Dopo un breve tratto di strada, Copacabana ci appare adagiata in una baia ai piedi del Cerro Calvario. Con un piccolo battello ci dirigiamo all’Isla del Sol, dove secondo antiche leggende aymara e quechua nacquero molte divinità e fecero la loro mistica apparizione i primi inca. Appena sbarcati, accompagnati da una schiera di ragazzini, affrontiamo la ripida scalinata risalente al periodo incaico che dal porticciolo sale al villaggio di Yumani. Iniziamo subito la nostra visita dalla parte meridionale dell’isola; con una piacevole passeggiata lungo pendii terrazzati ci rechiamo alle rovine del palazzo di Pilko Kaina, che ammiriamo dall’alto della collina, per ritornare a Yumani lungo uno stretto sentiero panoramico che costeggia la baia di Kona, dove assistiamo ad uno spettacolare tramonto, con il sole inghiottito dalle acque del lago, mentre la luna già illumina la Cordillera Real ed i picchi innevati dell’Illampu e del Nevado Ancohuma.

Venerdì 28 ottobre

In barca ci rechiamo nella parte settentrionale dell’isola; 45 minuti di navigazione per approdare al piccolo molo di Cha’llapampa. Dopo aver pagato il biglietto che ci consente di accedere alle rovine inca, visitiamo il piccolo museo, dove sono custoditi i reperti ritrovati a Marka Pampa, sito archeologico, che giace a 8 metri di profondità nelle acque del lago. Camminiamo lungo un vecchio sentiero inca fra campi coltivati dai campesinos con arcaici aratri in legno e terreni adibiti al pascolo degli armenti: pecore, asini e lama. Baie, incantevoli insenature e piccole spiagge, ci accompagnano fino alle rovine del palazzo di Chincana, un labirinto di muri e stretti passaggi che domina una piccola baia, ed alla “mesa sacrificale”, altare usato per sacrifici umani ed animali. Con un trekking di 17 chilometri lungo un cammino inca che snodandosi lungo il crinale dell’isola ci regala splendide vedute sul lago, sull’Isla della Luna e sulla Cordillera andina, ritorniamo a Yumani.

Sabato 29 ottobre

In attesa della partenza dell’imbarcazione che ci riporterà a Copacabana, facciamo un’ultima passeggiata per le ripide mulattiere di Yumani; incontriamo bambini di ogni età che stanno recandosi a scuola e campesinos che vanno al lavoro nei campi con pecore e lama. Lasciamo l’isola; a Copacabana in attesa dell’autobus che ci riporterà a La Paz abbiamo il tempo per una breve visita alla città. Attraversato il mercato, sbuchiamo nella piazza su cui sorge la cattedrale, dedicata alla Vergine della Candelaria, costruita in stile moresco con cupole rivestite da vivaci piastrelle di ceramica. Sul sagrato, decine di bancarelle vendono articoli a tema religioso; la chiesa è chiusa ma assistiamo ad un curioso rito, la “cha’lla”. Una benedizione rituale fra sacro e profano; uno strano personaggio asperge l’auto ornata da ghirlande di fiori e nastri colorati, con birra, e nel frattempo se ne scola alcune bottiglie con il proprietario del mezzo ed i suoi familiari. Ritorniamo a La Paz; a El Alto incappiamo nei soliti “bloqueos del gas” che ci costringono ad un lungo giro nei quartieri periferici alla ricerca di un passaggio che ci consenta di raggiungere la città.

Domenica 30 ottobre

Per timore di “bloqueos”, alle 6 con un taxi ci facciamo portare all’aeroporto internazionale. La città è deserta, mentre saliamo verso El Alto, nel cielo limpido e terso, per la prima volta riusciamo a vedere le cime innevate dell’Illimani, sgombre da nubi. I manifestanti non sono ancora scesi in strada, non ci sono blocchi, in una ventina di minuti siamo all’aeroporto. La nostra permanenza in Bolivia è ormai alla conclusione, non ci rimane che attendere il volo Taca per Caracas, da dove, in serata, con un volo Air France faremo ritorno in Europa.

di Mauro Rolando www.viaggiephoto.it

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