STEFANO GATTO DA 27 ANNI VIVE ALL’ESTERO LAVORANDO COME DIPLOMATICO PER L’UNIONE EUROPEA
Stefano Gatto, diplomatico per l’Unione Europea, da 27 anni vive all’estero, non per necessità ma per scelta; ha sempre desiderato un futuro internazionale ed ha iniziato a vivere all’estero quando, andare a lavorare all’estero, era visto più che altro come una stravaganza.
“…Al limite si concepiva un’esperienza estera, negli Usa o in Gran Bretagna, come propedeutica a un futuro in Italia….
Ho lavorato dapprima cinque anni nel settore privato, in Spagna… ma il mio sogno era sempre stato quello di una carriera pubblica internazionale, in diplomazia, all’ONU o all’Unione Europea.
A Madrid frequentai un master in relazioni internazionali, che mi rafforzo’ quell’aspirazione… L’anno dopo passai il concorso UE…”
Ciao Stefano, raccontaci un po’ di te… di dove sei e cosa facevi quando eri in Italia?
Io sono nato e cresciuto in Italia, ma per ragioni anche familiari (mio padre cresciuto in Francia e poi impegnato spesso per lavoro all’estero), ho sempre guardato al mondo con interesse, e desiderato un futuro internazionale.
Negli anni in cui ho terminato gli studi (mi sono laureato in economia alla Bocconi nel 1987) l’ambiente nazionale era euforico (fin troppo), e andare a lavorare all’estero era visto più che altro come una stravaganza.
Al limite si concepiva un’esperienza estera, negli Usa o in Gran Bretagna, come propedeutica a un futuro in Italia.
Ma io sono sempre stato attratto dal mondo, dalle cartine, e da ragazzo studiavo le lingue da solo.
Ho sempre sentito un’attrazione fatale verso gli altri Paesi, che mi sembrava troppo affascinante per essere trascurata.
E’ per queste ragioni che colsi al volo l’occasione di uno stage di studi all’estero nel 1985, a Barcellona, che segno’ un passaggio che poi sarebbe divenuto definitivo.
Quando e perché è arrivata la voglia o la necessità di lasciare l’Italia?
Come dicevo, non fu necessità, ma voglia. All’inizio pensavo solamente a qualche anno d’esperienza, ma poi è divenuta una scelta definitiva: sono ormai 27 anni che sono all’estero.
Perché hai scelto proprio di lavorare per l’Unione Europea?
Ho lavorato dapprima cinque anni nel settore privato, in Spagna, una scelta cui ti senti quasi obbligato quando hai studiato in Bocconi, ma il mio sogno era sempre stato quello di una carriera pubblica internazionale, in diplomazia, all’ONU o all’Unione Europea.
A Madrid frequentai un master in relazioni internazionali, che mi rafforzo’ quell’aspirazione (e dove conobbi mia moglie).
L’anno dopo passai il concorso UE, ma avrei anche potuto passare quello diplomatico nazionale.
Venne prima l’UE. E comunque sono molto europeista, e credo fermamente nella bontà del processo d’integrazione.
Avevi già vissuto all’estero per lunghi periodi prima della tua scelta lavorativa?
Avevo passato frequenti periodi in Marocco (dove lavorava mio padre) nei miei anni d’università, poi sette mesi a Barcellona all’ultimo anno.
Avendo avuto moltissimo da quell’esperienza, in una Barcellona non ancora divenuta di moda ma già adorabile, decisi di cercare lavoro in Spagna anziché in Italia.
Le mie prime esperienze professionali furono a Madrid.
Sei partito da solo o con la partner o amici?
Da solo.
In che cosa consiste la tua attività?
Nei primi cinque anni ho lavorato come economista, in una camera di commercio, poi in una banca italiana. Pero’ volevo un altro tipo di carriera.
Passato il concorso UE, mi sono sempre occupato di politica estera dell’UE, e faccio parte del corpo diplomatico europeo, prima alla Commissione Europea, poi al SEAE, il servizio estero europeo diretto da Catherine Ashton.
Come in ogni servizio diplomatico, ho alternato periodi nelle sedi comunitarie (Lussemburgo, tre volte Bruxelles) e in destinazioni estere, ognuna di quattro anni.
Dal 1998 al 2002 il Brasile, dal 2002 al 2006 l’India, dal 2009 al 2013 El Salvador, da quest’ottobre saro’ in Pakistan per un altro periodo di quattro anni.
Nei periodo a Bruxelles sono chiamato a svolgere frequenti viaggi in giro per il mondo, che mi hanno portato grosso modo in una quarantina di Paesi: tutta l’America Latina, diversi paesi asiatici e africani. Non ho invece lavorato mai con l’Europa dell’est.
Ma cosa fa un diplomatico per ’Unione Europea?
Un diplomatico europeo rappresenta l’Unione Europea nel mondo: è inserito in una Delegazione UE, un’ambasciata con altro nome, che è il riferimento per ogni attività dell’UE con il Paese in cui si trova.
Le prime responsabilità sono commerciali (promozione degli interessi europei, negoziati a nome dell’UE in ambito commerciale) e legate alla gestione dei fondi di cooperazione allo sviluppo (l’UE è il primo donatore mondiale).
Dal 2010 in poi la Delegazione UE coordina le attività delle ambasciate europee presenti nel Paese.
Io sono stato consigliere economico in Brasile, commerciale in India, capo delegazione in El Salvador e adesso saro’ ambasciatore aggiunto in Pakistan, a Islamabad.
Cosa hai notato, di diverso nelle Nazioni in cui hai vissuto, rispetto il Bel Paese?
Avendo vissuto in cosi’ tanti Paesi è difficile dare una sola risposta.
Diciamo che rispetto agli altri Paesi europei nei quali ho vissuto (Spagna, Belgio, Lussemburgo) ho sempre notato un maggior ordine e società più aperte e trasparenti rispetto al modello italiano delle “conoscenze” e degli appoggi.
Al tornare in Italia tutto sembrava sempre cosi’ difficile e macchinoso.
Anche rispetto a una Spagna di cui io ho vissuto anni entusiasmanti, tra gli ottanta e i novanta, di grande slancio, crescita e apertura. Un altro mondo rispetto al modello italiano, molto rigido.
Il Brasile e l’India che io ho vissuto stavano per divenire emergenti; al di là dell’enorme differenza che suppone vivere in Paesi con strutture sociali diverse dalle nostre, nel Brasile come negli altri paesi latini in cui ho lavorato nel tempo, notavo parecchie similitudini con il nostro Paese; la poca efficienza del settore pubblico, la vitalità del singolo rispetto alle difficoltà della dimensione collettiva.
L’India è un altro pianeta, un mondo a parte che lascia sensazioni indimenticabili: una vera sfida culturale, dai sapori anche forti. E’ pero’ anche Paese d’enorme personalità, orgoglioso della propria cultura e della propria storia, che va affrontato con realismo e senza giudizi preconcetti.
Il senso della famiglia che lo caratterizza impressiona, cosi’ come la persistenza del sistema di caste. Un miliardo e duecento milioni d’abitanti, bisogna viverci per realizzare di quale massa d’urto stiamo parlando.
El Salvador è un paese bello e misconosciuto, caratterizzato pero’ da preoccupanti livelli di violenza.
Come avviene la tua integrazione in realtà così differenti rispetto quella italiana?
Dipende. In Spagna ero un “madrilegno” qualsiasi. In Belgio e Lussemburgo il fatto d’essere funzionario europeo ti marca un po’, pero’ puoi integrarti normalmente se ti dedichi a attività con persone fuori dal circolo europeo, cosa che consiglio.
Personalmente, io sono molto curioso e investo molto tempo, ovunque mi stabilisca nel leggere, informarmi, curiosare, approfondire storia e tradizioni del Paese, in maniera tale da vivere il meno possibile “da straniero”.
Quando sei un diplomatico rimani per forza, in un certo modo, etichettato come “esterno”: e’ quindi importante non vivere solo con colleghi, ma cercare di vivere il più normalmente possibile, seguendo la vita culturale, sportiva, cercando di frequentare persone del luogo e soprattutto, tenere gli occhi molto aperti e “assorbire” il Paese.
In India seguivo e ho imparato a giocare il cricket, in ogni Paese ho sempre avuto le mie squadre del cuore e seguito da vicino l’attualità e la vita politica.
Vivere all’Estero sotto quali aspetti è meglio che in Italia? E sotto quali aspetti è peggio?
E’ meglio perchè non hai reti di protezioni, luoghi dove nasconderti.
Sei tu che devi giocarti la partita da solo, senza contare su protezioni, amicizie, contatti.
Una realtà che, dove sei nato, puo’ invece diventare soffocante (nemo propheta in patria…).
All’estero, sei libero e non hai scuse cui appigliarti, quindi tiri fuori il meglio di te.
Del vivere sempre lontano vedo come aspetto negativo solo la lontananza dalla famiglia, in particolare dai genitori che invecchiano.
Nel mio caso, entrambi i miei sono mancati quand’ero a diecimila chilometri di distanza, e non è una bella sensazione non essere con loro nei loro ultimi anni, spesso difficili.
Consideri l’Italia un ricordo, hai nostalgia? Cosa ti manca quando sei via?
L’Italia non mi manca molto: mi mancano alcune sensazioni epidermiche, il rullo dei tamburi della mia Siena, certi odori o sapori specie di casa.
A volte penso con invidia a chi non si è mai mosso, poi cambio idea, il rimpianto del non sapere cosa il mondo mi avrebbe riservato sarebbe troppo forte.
Con l’Italia ho avuto per anni un rapporto scontroso, iper–critico: da fuori la criticavo, forse l’odiavo per la sua staticità.
Per anni sono stato incompreso, c’era chi mi considerava un rompiscatole, specie negli anni in cui ci sentivamo fortissimi e bellissimi.
Negli ultimi anni gli italiani sono caduti nell’eccesso contrario, adesso si sentono i più miseri del mondo.
In quel caso cerco di relativizzare un po’ la loro visione, non è che nel resto del mondo tutto funzioni poi cosi’ a meraviglia.
Ma come latini abbiamo la tendenza a esagerare la nostra percezione di noi stessi, nel bene e nel male.
Cosa consiglieresti ad altri italiani che desiderassero seguire le tue orme?
Per dedicarsi a una carriera internazionale bisogna essere molto decisi, sapere che la competizione e’ fortissima ma che con le tue energie ce la puoi fare, senza cedere in quel gioco di compromessi cui siamo cosi’ abituati in Italia. Se vali, prima o poi lo dimostrerai e emergerai.
Non aver paura di compiere esperienze difficili all’inizio, il mio primo stipendio non mi bastava nemmeno per pagare casa, pur essendo un laureato d’un università prestigiosa: il secondo era già migliore e cosi’ via. Gli obiettivi devono essere a lungo termine.
In particolare, se vuoi dedicarti a una carriera in un organismo internazionale, devi leggere e studiare tantissimo, tanta stampa e magazines internazionali.
Fare più esperienze possibili, almeno fino ai trent’anni, poi cercare di definire un cammino preciso, con una specializzazione. Nella mia carriera specifica, non ossessionarsi con le destinazioni “prestigiose”, spesso è nei posti più disagiati e sperduti che impari e ti fai grande.
Non fare scelte pensando a quello che gli altri penseranno, ma a quello che ti senti dentro.
Per quanto riguarda il rapporto con l’italianità, suggerirei loro di usarla non come protezione, ma come piattaforma per aprirsi agli altri.
Abbiamo tante cose interessanti da offrire senza cadere nella macchietta di noi stessi. Gli italiani seri non sono secondi a nessuno, dimostriamolo sorprendendoli anche per la nostra affidabilità.
Che tipo di lavoro, attività o investimento pensi sia conveniente praticare per un italiano in nei Paesi in cui hai lavorato?
In Spagna tutto era fattibile prima della crisi, con meno lacci e lacciuoli che in Italia.
Oggi la situazione è difficile, ma è un paese che risorgerà, e nel quale si vive benissimo e piacevolmente anche senza navigare nell’oro.
Sento parlare sempre più italiano per strada, chi si è stabilito qui non rinuncia tanto facilmente a causa della crisi.
In Belgio ci sono piu’ italiani che in qualsiasi città italiana: tra “italiens de Belgique” dell’emigrazione tradizionale e giovani generazioni si sente parlare quasi piu’ che italiano che francese in certe zone.
L’indotto comunitario attira moltissimo, è comunque un Paese molto interessante, multilingue, più provinciale rispetto a Londra o Parigi ma dove ci sono tante opportunità interessanti.
Il Brasile è un paese emergente in crescita, dove vivono milioni di brasiliani d’origine italiana e gli italiani si trovano benissimo.
Chiunque abbia una buona formazione e conosca portoghese e inglese puo’ inserirsi con buone prospettive. Gli italiani sono apprezzati per la loro inventività e stile, bisogna far valere quei pregi, aggiungendovi serietà e puntualità per essere vincenti.
L’India è un paese molto particolare, nel quale si rimane sempre stranieri, con un interesse minimo per il resto del mondo. Essere stranieri non è un grande vantaggio, non andrei all’avventura in quel Paese ma solo se inserito in un quadro già prestabilito e certo. Se no puo’ divenire davvero dura.
In America Centrale resta quasi tutto da fare: si cercano disperatamente imprenditori e persone con iniziativa. Chi se la sente puo’ scoprire Paesi ancora relativamente poco sviluppati, con grandi margini di crescita ma anche problemi ambientali con cui bisogna imparare a convivere (la questione sicurezza).
Pensi che ci siano molti italiani che vivono nelle zone in cui sei stato?
In Brasile, specie nello stato di Sao Paulo ma non solo, gli italiani d’origine sono maggioranza: intendiamoci, le radici sono più folcloristiche che reali, ormai sono brasiliani 100%, pochissimi parlottano l’italiano.
In India la presenza è episodica.
Del Belgio e della Spagna ho detto.
In America Centrale la comunità d’origine italiana è prospera e molto consolidata, se non numerosissima.
Qual è, tra tutti, lo Stato che sceglieresti dove vivere per sempre… e perche’?
Lo Stato dove mi stabiliro’ definitivamente alla fine della mia carriera professionale è la Spagna, dove ho già casa e che è il paese di mia moglie e di mio figlio, più legato alla Spagna che a un’Italia dove non ha mai vissuto.
Mi sento totalmente bi-nazionale e bi-culturale, ma anche molto più a mio agio a Madrid o a Barcellona che in una città italiana, realtà ormai lasciata da quasi trent’anni.
Degli altri paesi in cui ho vissuto o in cui ho viaggiato, credo che sceglierei Rio de Janeiro, che combina una vita e un clima piacevole in un Paese che mi appassiona, e Parigi: sono sempre stato molto legato alla cultura francese e mi ha sempre affascinato quella città, che conosco bene ma in cui ho mai vissuto.
Di Rocco Mela