Birmania, terra di contrasti e di contraddizioni. Un paese dalle mille sorprese; un paese dove la gente sorridente e disponibile subisce da secoli l’oppressione dei suoi governanti; dove scelte autarchiche e repressive isolandolo dal resto del mondo lo hanno preservato da influenze esterne; dove il jeans non ha ancora sostituito l’abito tradizionale, il longyi, e dove etnie tribali hanno mantenuto inalterate nel tempo, usanze e tradizioni antichissime.
Un paese che offre emozioni e suggestive visioni. I visi sorridenti, dipinti con la corteccia di thanaka, di donne e bambini; la magia delle pagode dorate che risplendono nella calda luce del tramonto; il tintinnio dei campanelli mossi dal vento, rimandano a suoni ed immagini di un tempo lontano.

Domenica 3 ottobre

Da tempo la Birmania, ora Myanmar, figurava fra le possibili mete di viaggio, ma solo quest’anno siamo riusciti a concretizzare il nostro progetto. Con Daniela e Roberto, nostri abituali compagni di ventura, ci imbarchiamo da Milano Malpensa per Zurigo, dove nel pomeriggio ci attende il volo Thai per Yangon, via Bangkok.

Lunedì 4 ottobre

Dopo un lungo volo notturno ed una sosta di tre ore nella capitale thailandese atterriamo a Yangon. Ad attenderci all’aeroporto, Maung Soe, il titolare dell’agenzia contattata via e-mail e Than Tou, l’autista che ci accompagnerà nel nostro viaggio in Birmania. Definiti gli ultimi particolari, ci congediamo da Soe e Than Tou, che ritroveremo tra un paio di giorni, al termine della visita della capitale. Usciamo in taxi; dobbiamo ritirare i permessi necessari per entrare nello stato Chin presso gli uffici dell’MTT, l’agenzia statale, situata sulla piazza antistante la Sule Paya, inconsueto zedi dorato a forma ottagonale il cui profilo svetta sui viali trafficati della città. A piedi, attraversiamo lo Theingyi Zei, il mercato più esteso di Yangon, per dirigerci al lungo fiume; ai moli, animati punti d’imbarco per merci e passeggeri, assistiamo alle operazioni di carico su piccole imbarcazioni, di merci di ogni genere portate a spalla da una nutrita schiera di uomini. Provati dal fuso orario e dal caldo ci concediamo una sosta nell’ombrosa piazzetta antistante il tempio cinese di Kheng Hock Keong, prima di proseguire fino alla Botataung paya, grande pagoda ricostruita dopo la seconda guerra mondiale, che diversamente da altre paya, ha il basamento dello zedi cavo, ed al cui interno, una sorta di labirinto rivestito da mattonelle a specchio, si possono ammirare numerose teche contenenti preziose reliquie.

Martedì 5 ottobre

Proseguiamo la visita di Yangon ed in taxi raggiungiamo poco dopo l’alba, la Swedagon paya, il posto più sacro in assoluto per i buddisti therewada. Un complesso enorme e meraviglioso a cui si accede da quattro passaggi coperti che conducono alla piattaforma su cui sorge lo stupa centrale a forma di campana e che secondo la leggenda custodisce otto capelli di Buddha. Tutt’intorno è un insieme fantastico di stupa e di zedi più piccoli, di templi, statue, reliquari e padiglioni. Stupiti dalla bellezza e rapiti dalla spiritualità del luogo, trascorriamo la mattinata camminando fra i numerosi fedeli in preghiera. Lasciata la Swedagon paya, – ci ritorneremo nel tardo pomeriggio – in taxi raggiungiamo il Bogyoke Aung San Market, grande mercato nel cuore della città, dove Adriana e Daniela effettuano i primi acquisti. Facendo ritorno alla pagoda, ci concediamo una piacevole sosta sotto i freschi ed ombrosi alberi che contornano il lago Kandawgyi, il lago reale, nelle cui acque si specchia lo scintillante profilo dello zedi. Per una scalinata laterale saliamo nuovamente alla spianata. Al calar del sole, con l’accensione delle prime luci, psichedeliche aureole multicolori si illuminano intorno alle statue di Buddha. Ci colpisce il silenzio, interrotto solo dal tintinnio delle migliaia di campanelle appese alle guglie degli stupa, mosse dalla fresca brezza serale. Il grande stupa ricoperto d’oro, illuminato da potenti riflettori, risplende nella notte e rende il posto ancora più fantastico e l’atmosfera più magica; dalla sommità della guglia giungono i riflessi di un grosso diamante da settantasei carati incastonato con altre pietre preziose. E’ notte, quando seppure a malincuore, lasciamo questo posto fantastico.

Mercoledì 6 ottobre

Alle 7,30 Than Tou è al nostro albergo, con un pulmino Toyota Hiace a otto posti, tutto per noi. Ci dirigiamo verso nord, lungo la statale per Mandalay; dopo pochi chilometri, facciamo una breve sosta al Htaukkyant War Cemetery, cimitero di guerra in cui riposano 27.000 soldati alleati caduti durante la seconda guerra mondiale. Tre ore di viaggio ci separano da Bago, l’antica Pegu, dove ci rechiamo a visitare la Kyaik Pun Paya, tempio con quattro statue di Buddha alte una trentina di metri, una per ogni lato della costruzione, e la Shwethalyaung Buddha, enorme statua della lunghezza di cinquantacinque metri, raffigurante un Buddha reclinato. Dopo una sosta al mercato di Waw, alle 15.30 giungiamo a Kyaikto. Preso posto, sulle dure panchette in legno poste sul cassone di un camion, ci prepariamo ad affrontare la ripida salita che in una ventina di minuti attraverso la rigogliosa foresta pluviale conduce al piccolo agglomerato di case, punto di partenza del trekking. A piedi imbocchiamo la ripidissima salita che in circa un’ora permette di raggiungere la Golden Rock. Ci accompagnano alcuni ragazzini che si offrono di portarci gli zaini; altri portatori con improvvisate portatine fatte con lunghe canne di bambù a cui hanno legato una sedia, si offrono a coloro che non vogliono affrontare la dura salita con le proprie gambe. In lontananza, si staglia la sacra roccia dorata, tenuta in equilibrio, così vuole la leggenda, da un capello di Buddha. Giunti allo stupa rimaniamo alquanto delusi, il luogo è troppo artefatto, estremamente turisticizzato con enormi balconate e terrazze piastrellate, alcune delle quali vietate alle donne. Da un vicino monastero, sentiamo cantare; ci affacciamo, all’interno monaci-bambini cantano e pregano. Dopo aver assistito al tramonto, velato da nubi, ritorniamo a valle; con il buio, affrontiamo il tratto a piedi, assieme ad un gruppo di turisti francesi, che molto cortesemente ci offrono un passaggio fino a Kyaikto, sul camion che appositamente si era fermato ad attenderli.

Giovedì 7 ottobre

Tappa di trasferimento verso Kalaw, quella odierna. Ritornati a Bago, imbocchiamo la statale per Mandalay; la principale arteria del paese che lo attraversa per l’intera sua lunghezza. Lungo il percorso alcuni ragazzi stanno procedendo alla riasfaltatura di un tratto di strada; uno di loro correndo con una latta forata come un colabrodo, sparge a terra il bitume su cui giovani donne rovesciano, da ceste in bambù, la ghiaia.

Venerdì 8 ottobre

Nel traffico del mattino, composto quasi esclusivamente da biciclette e motocicli, lasciamo Taungoo. La strada, larga e ben tenuta, con ai bordi lunghe distese di rossi peperoncini messi ad essicare, attraversa la verde e fertile pianura punteggiata di piccoli villaggi. Dopo una sosta, non preventivata, al villaggio di Pyinmana per far riparare un pneumatico, imbocchiamo la strada che da Thazi conduce a Kalaw. Alla campagna sta subentrando la foresta pluviale e la strada stretta e tortuosa percorsa da grossi camion carichi all’inverosimile di enormi tronchi di tek, si inerpica fra montagne ricoperte da una vegetazione lussureggiante. Alle 16.30 giungiamo a Kalaw, graziosa cittadina montana; tramite l’albergo dove alloggiamo ci mettiamo in contatto con George, la guida che ci accompagnerà nel trekking di due giorni, che effettueremo sulle alture dei dintorni, per visitare i villaggi abitati da etnie Palaung e PaO.

Sabato 9 ottobre

In una splendida mattina di sole, partiamo dall’hotel per il trekking. In compagnia dei contadini che con carri trainati da bufali si stanno recando al lavoro, imbocchiamo il largo sentiero che snodandosi fra campi coltivati, risaie e boschi di pini marittimi, conduce alla foresta pluviale, che attraversiamo accompagnati dal rumore forte e sordo di migliaia di grilli che sfregando ali e antenne producono questa strana colonna sonora. Dopo circa due ore e mezza di cammino, George la guida di origini indiane che ci accompagna, ci propone una breve sosta sulle rive di un piccolo lago che funge da riserva idrica per Kalaw, prima di affrontare un ripido sentiero fangoso, che risalendo il crinale ci permette di uscire dalla foresta. Giungiamo a Viewpoint, rifugio alpino a circa 1600 metri d’altitudine, – il luogo dove pernotteremo – da cui si gode una fantastica vista sulle vallate circostanti. Dopo una sosta per rifocillarci e depositare il poco bagaglio che abbiamo appresso, ci rimettiamo in cammino in direzione dei primi villaggi Palaung. Il paesaggio è nuovamente mutato, camminiamo attraverso vaste piantagioni di the. Al villaggio di Ywathit, abbiamo l’opportunità e la fortuna di vedere alcune donne Palaung, con gli abiti tradizionali, longyi rossi e bluse blu indossate con una “sciarpa” multicolore che avvolge loro i capelli. Veniamo circondati da bambini di tutte le età; si avvicinano incuriositi, molti di loro tossiscono in continuazione. George ci spiega che la tbc è ancora diffusa e consegna medicinali alle donne che gliene fanno richiesta. Proseguiamo la nostra camminata lungo il crinale della collina fino al villaggio di Taryaw, dove visitiamo una delle ultime longhouse rimaste; è abitata da sei/sette nuclei familiari, ognuna con il proprio spazio ed il proprio focolare. Anche qui molti bambini e qualche donna; tutti gli altri sono ancora al lavoro nei campi. Aspettiamo il loro rientro, quindi con il buio, ritorniamo a Viewpoint, dove ci stanno aspettando per la cena, che mangiamo accanto al fuoco, in cucina, in compagnia dei gestori nepalesi del rifugio e di due ragazzi americani in viaggio di nozze.

Domenica 10 ottobre

Ci alziamo con le ossa indolenzite a causa del letto; un tavolaccio inclinato con strapuntini e coperte su cui abbiamo adagiato i nostri sacchi-lenzuolo. Ci rimettiamo in cammino, lungo il sentiero uomini e donne stanno raggiungendo i propri campi o recando al pascolo con piccole mandrie di mucche e bufali; affabili ci sorridono e si fermano a scambiare due chiacchiere. Dopo un’ora giungiamo al villaggio Palaung di Hin Kha Gone; passando di fronte alla scuola, ci affacciamo ad una finestra; la scolaresca, una moltitudine di bambini di ogni età accortasi della nostra presenza, viene a salutarci sull’uscio cantando festosa. Lasciamo il villaggio e per il comodo sentiero che si snoda fra coltivazioni di the e foresta pluviale, ci avviamo verso il fondovalle; costeggiando i binari della ferrovia raggiungiamo il villaggio di Myinhtike, abitato dai Danu, presso cui ci fermiamo per il pranzo, ospiti di un anziano contadino. Sempre lungo i binari, raggiungiamo la “Train Station”, la stazione ferroviaria che serve i numerosi villaggi dei dintorni di Kalaw. Considerate le condizioni dei piedi delle fanciulle, decidiamo di tagliare l’ultimo tratto di trekking (circa tre ore) – anche oggi ci siamo fatti una ventina di chilometri – e di rientrare in treno. Nella stazione affollatissima di passeggeri e venditori, per la presenza di un convoglio diretto a Yangon, fermo per un guasto al locomotore, attendiamo l’arrivo del treno. Viaggiamo in classe ordinaria, il tratto è breve; i passeggeri affabili e sorridenti, incuriositi dalla nostra presenza, ci offrono ciò che hanno: arachidi. Dopo mezz’ora siamo alla stazione di Kalaw, a piedi raggiungiamo l’albergo dove troviamo Than Tou ad attenderci con una piacevolissima e gustosa sorpresa: ananas e papaya freschi.

Lunedì 11 ottobre

Poco dopo l’alba lasciamo Kalaw, per recarci ad Aungban dove ogni cinque giorni si tiene il mercato settimanale, frequentato prevalentemente dai Danu e dai PaO, le cui donne sono facilmente riconoscibili per gli abiti che indossano: bluse e longyi neri. Girovaghiamo un paio d’ore per le stradine affollate prima di portarci a Pindaya, alle famose grotte contenenti ottomila statue di Buddha fatte con i materiali più disparati, sasso, cemento, mattoni, legno, tutte dipinte rigorosamente di rosso e oro, messe a dimora nel corso dei secoli e disposte in modo di formare un labirinto che si snoda nelle varie camere che costituiscono la grotta. Pindaya è conosciuta anche per la produzione della carta shan, ottenuta facendo macerare corteccia di gelso; in un laboratorio assistiamo al procedimento produttivo ed all’utilizzo della carta per la costruzione di ombrelli e parasole. Dopo aver effettuato alcuni acquisti, ci rimettiamo in viaggio; lungo la strada incrociamo numerosi trattori che trainano carri stipati di persone di ritorno dal mercato di Aungban. Ci dirigiamo al lago Inle; prima di Nyaungshwe ci fermiamo al monastero in legno di Shwe Yaunghwe Kyaung, costruito nel XVIII secolo e caratterizzato da grandi finestre ovali, a cui sono affacciati giovani monaci novizi.

Martedì 12 ottobre

Giornata dedicata interamente al lago Inle, quella odierna. Raggiunto l’imbarcadero e pagato il biglietto che consente di accedere al lago, saliamo su una lancia munita di comode seggiole; percorrendo il lungo canale che conduce all’imboccatura del lago, incrociamo numerose imbarcazioni cariche di ortaggi che si stanno recando al mercato giornaliero di Nyaungshwe. Raggiungiamo la sponda orientale, per visitare il mercato di Maing Thauk, che si tiene ogni cinque giorni e si alterna con quelli di Kaung Daing, Nam Pan, Indein e Than Daung. Accanto al mercato tradizionale, notiamo quanto siano numerose le bancarelle che vendono souvenirs per turisti. Attraversiamo il lago, ci portiamo sulla riva occidentale, al villaggio di Ywama. Il livello dell’acqua, dopo la stagione delle pioggie, è ancora particolarmente elevato; transitando di fronte alla pagoda di Aung Mingalar notiamo come gli stupa siano immersi nell’acqua. Dopo una rapida visita ad un laboratorio per la produzione della carta di gelso, raggiungiamo la vicina pagoda Phaung Daw U, dove sono conservate e venerate cinque antiche statue di Buddha rese ormai informi dalla quantità di foglie d’oro applicate nel corso dei secoli dai fedeli, ed in cui ritorneremo giovedì per assistere ad una delle feste più importanti dell’intera Birmania. Attraversato il villaggio di Yetha, un agglomerato di palafitte abitato da una comunità di pescatori Intha, raggiungiamo Inbawkon dove in un abitazione assistiamo al confezionamento dei sigari, effettuato dalle mani abili e veloci di giovanissime ragazzine. Risaliamo il lago costeggiando gli orti galleggianti; in piedi su piccole imbarcazioni uomini e donne Intha stanno provvedendo alla raccolta del prodotto di stagione: il pomodoro. Li vediamo spostarsi rapidamente utilizzando una gamba ed il busto per remare. Rientrando a Nyaungshwe, facciamo una sosta al monastero di Nga Phe Kyang, meglio conosciuto come il monastero dei gatti saltanti per la presenza di alcuni felini addestrati, a saltare attraverso un cerchio sorretto da un monaco. Ci prepariamo a rientrare, nuvoloni scuri, carichi di pioggia si rincorrono in cielo e riflettendosi sulla superficie lacustre creano un bellissimo contrasto con il verde dei giacinti d’acqua.

Mercoledì 13 ottobre

All’alba siamo svegliati dal suono di un gong. Sono i monaci che in processione sfilano per le strade del villaggio. Usciamo in strada, li rincorriamo, Procedono velocemente, si fermano solo pochi istanti per ricevere le offerte dei fedeli che richiamati dal gong, escono di casa e si avvicinano alla processione con deferenza. Oggi abbiamo in programma di recarci a Taunggyi e a Kakku. Lasciamo il lago ed attraverso verdi colline coltivate e terreni adibiti a pascolo, saliamo verso Taunggyi, città dello stato Shan, assai conosciuta per i commerci di gemme e pietre preziose. Vorremmo visitare il mercato delle gemme, ma scopriamo che oggi, ultimo giorno del mese per il calendario birmano, è giorno di festa; negozi ed uffici sono chiusi. Dopo aver pagato il biglietto che consente l’accesso alla zona di Kakku accompagnati obbligatoriamente da una guida PaO, una ragazza graziosa e disponibile ma seria ed essenziale quasi avesse avuto una rigida educazione militare, solo parzialmente ingentilita dall’abito tradizionale, lasciamo Taunggyi. Facciamo una sosta al monastero di Ham Se, per assistere alla preghiera dei fedeli; le donne, più numerose sono riunite in un grande salone, mentre gli uomini, sono raccolti in preghiera in un piccolo padiglione esterno. Alle 11 assistiamo al pasto dei monaci, quasi tutti giovani novizi. Richiamati dai rintocchi del gong si presentano presso due enormi pentoloni per ricevere una ciotola di riso. Raggiungiamo Kakku, visitiamo il sito in parte ristrutturato, risalente all’ XI° secolo, composto da uno stupa centrale e da altri 2400 stupa minori, alcuni con statue raffiguranti Buddha, altri dedicati ai Nat o a personaggi della mitologia birmana. Rientrando, facciamo una sosta al villaggio di Won Ha, dove abbiamo l’opportunità di visitare una tipica abitazione PaO, una palafitta dalle pareti in bambù costituita da due grandi stanze; una utilizzata per la notte, con il pavimento ricoperto dalle stuoie utilizzate per coricarsi mentre l’altra adibita a cucina, presenta al centro, una grossa pietra piatta su cui arde il fuoco utilizzato per cucinare.

Giovedì 14 ottobre

E’ notte fonda quando giungiamo all’imbarcadero. Dopo ore di pioggia battente, finalmente il tempo è migliorato. Saliamo in barca, il canale che conduce al lago è immerso nella più totale oscurità; le poche barche in navigazione segnalano la loro presenza con le torcie. Attraversiamo il lago; i primi raggi di sole stanno cercando di farsi largo fra nubi nerastre. All’improvviso nella luce tenue dell’alba, ci appare una lunga lancia con a bordo una quarantina di uomini, che cantando accompagnati da strumenti a percussione e remando, come solo gli Intha sanno fare, stanno dirigendosi alla pagoda di Phaung Daw U. Dopo un’ora di navigazione, attracchiamo. C’è un clima gioioso; mescolandoci alle centinaia di persone Intha e PaO, presenti, ci dirigiamo verso la grande porta d’ingresso. La pagoda è affollata all’inverosimile di fedeli, rinunciamo ad entrare e preferiamo posizionarci lungo il percorso che la processione dovrà fare per giungere alla barca reale. Accompagnate da una musica ripetitiva ed assordante, le quattro informi “statue” di Buddha, scortate dalle autorità civili e militari vengono portate all’esterno e poste sotto un baldacchino, dove in attesa di essere sistemate sulla barca reale, raffigurante il “karaweik”, l’uccello dorato della mitologia birmana, viene celebrata una funzione religiosa officiata da anziani monaci. Assistiamo alla partenza della processione; decine di imbarcazioni, lunghe lancie con a bordo trenta – quaranta persone, scortano la barca reale, spinta anch’essa come tutte le altre imbarcazioni da decine di uomini Intha, che secondo la tradizione remano usando la gamba. Ha così inizio il lungo viaggio che per diciotto giorni porterà le statue in pellegrinaggio presso i monasteri sparsi sulle rive del lago Inle. Prima tappa il monastero di Nyaung Ohak ad Indein. Il corteo impiegherà circa due ore per giungere a destinazione; decidiamo di fare una rapida visita al mercato di Nan Pam, prima di risalire il fiume e raggiungere Indein. Tantissima è la gente presente, quasi interamente di etnia PaO, scesa al villaggio dalle montagne circostanti. Ci mescoliamo alla folla, colorata e vociante, in attesa dell’arrivo della processione. Il rullare di tamburi, il suono dei gong e di altri strumenti a percussione, ci annunciano l’imminente arrivo delle barche, ognuna delle quali rappresenta un villaggio. Ultima a giungere è la barca reale; con cura e devozione, scortati dalle onnipresenti autorità militari, i monaci trasferiscono le statue al monastero. Il tempio è affollatissimo, molti fedeli in attesa di poter entrare stanno ancora preparando le proprie offerte. Imbocchiamo il lungo porticato sorretto da colonne lignee che risalendo la collina collega il monastero di Nyaung Ohak alla pagoda Shwe Inn Thein. Intorno allo stupa, come a Kakku, tanti stupa più piccoli; non sono mai stati restaurati, alcuni sono ancora circondati dalla boscaglia. Un posto affascinante e singolare. Ritorniamo al villaggio per far visita ad un gruppetto di donne Padaung, le “donne-giraffa”, che stanno tessendo all’interno della loro abitazione. Appartengono alla stesso nucleo familiare, trasferitosi da Loikaw, nello stato Kayah, zona attualmente off-limits per i turisti occidentali. Un incontro emozionante, in una giornata davvero speciale.

Venerdì 15 ottobre

Lasciamo il lago Inle; oggi ci attende una lunga tappa di trasferimento. Than Tou preoccupato per le condizioni di alcuni tratti stradali e per le abbondanti pioggie delle notti scorse ha voluto che partissimo molto presto. Non si sbagliava; a Kalaw, la strada è chiusa al traffico. L’interminabile e tortuosa discesa che conduce a Thazi, è impraticabile a causa del fango, degli smottamenti e di alcuni autocarri intraversatisi che ostruiscono la sede stradale. Ci riferiscono che da alcune ore stanno lavorando per ripristinare la viabilità; dopo oltre un’ora la circolazione riprende a senso unico alternato. Raggiungiamo Thazi, quindi Meitlika, la strada seppur meno tortuosa è sempre molto stretta e sconnessa, solo dopo Kyauk Padaung finalmente migliora; è notte quando giungiamo a Bagan.

Sabato 16 ottobre

Con un caldo afoso, opprimente, ed un cielo nuvoloso,iniziamo la visita della piana di Bagan, uno dei luoghi più affascinanti dell’intera Birmania. Immersi nel verde della pianura, sono oltre duemila i templi (patho), gli stupa ed i monasteri, di ogni foggia e dimensione, costruiti tra il X° ed il XIII° secolo, giunti fino ai giorni nostri. Alcuni enormi, svettano con cupole maestose verso il cielo, altri più piccoli si ergono solitari nei campi; in alcuni è possibile salire sulle terrazze ed ammirare lo stupefacente panorama che si presenta agli occhi di chi affronta i ripidi scalini. Decidiamo di spostarci in auto e di visitare quelli più significativi; costruiti in mattoni intonacati, molti hanno perso nel tempo l’intonaco decorato con rilievi a stucco. Ci rechiamo al tempio di Ananda, dall’inconfondibile stupa dorato, uno dei templi meglio conservati ed ancor oggi tra i più venerati; allo Dhammayangyi Patho, dove è possibile accedere alle terrazze; alla Dhammyazika Paya, alla Sulamani Pahto, alla Shwezigon Paya, alla Manuha Paya. All’interno ammiriamo statue gigantesche raffiguranti Buddha seduto o sdraiato; intere pareti affrescate che ne rappresentano scorci di vita. Ci rechiamo alla Bupaya, il tempio più antico di Bagan, dal caratteristico stupa a forma di bulbo che sorge sulle rive del fiume Irrawaddy, ai cui piedi scorre lento e maestoso. Per assistere al tramonto Than Tou ci porta alla Shwesandaw Paya, stupa circolare dalle cui terrazze si gode una vista spettacolare sull’intera piana di Bagan. Il cielo coperto per buona parte della giornata, si è rasserenato, il sole una palla infuocata tramonta dietro le montagne oltre il fiume.

Domenica 17 ottobre

Sveglia alle 5. Ci rechiamo a vedere l’alba in uno dei punti più alti attualmente accessibili ai visitatori, la terrazza della Mingazaledi. Le nuvole all’orizzonte ci nascondono il sorgere del sole; quando i primi raggi cominciano a scaldare la terra bagnata ecco improvvisamente alzarsi la nebbia. E’ uno spettacolo stupefacente, dalla nebbia spuntano solo le cupole delle pagode più alte, mentre il sole velato da nuvole e nebbia, colora di arancione ogni cosa, creando un’atmosfera da favola e dando al paesaggio un aspetto surreale. Dopo essere ritornati in hotel per recuperare Roberto che aveva preferito starsene a letto, riprendiamo il giro nella piana di Bagan. Ci rechiamo al fiume sulle cui rive sorge la Lawkananda Paya, edificio dell’anno 1000 usato quotidianamente come luogo di culto ed alla vicina Ashye Petleik Paya, le cui pareti sono rivestite da formelle di terracotta con incisi bassorilievi narranti scene della jataka, la storia delle vite passate di Buddha. Ci spostiamo ai templi di Payathonzu e di Tayok Pye Paya; attraversando il vicino villaggio di Minnanthu, vediamo sedute sull’uscio delle loro abitazioni alcune donne anziane intente a fumare i “cheroot”, i grossi sigari birmani; una di loro, dopo aver preso la foglia di una pannocchia di granoturco e del tabacco ne confeziona uno, e me lo regala. La giornata è torrida, rientriamo in hotel e nel fresco ed ombreggiato giardino dell’hotel attendiamo Aung, la guida che ci accompagnerà nel giro fra i Chin, con cui abbiamo appuntamento. Si presenta con un ufficiale dell’esercito; controllati i permessi e definiti gli ultimi dettagli, ci diamo appuntamento per l’indomani mattina. Nel tardo pomeriggio decidiamo di recarci a visitare ancora un paio di templi: la Gaw Daw Paun Paya e la Htilominio che all’interno conserva alcuni dipinti murali, prima di recarci alla Minyeingon dove assistiamo al tramonto. Salutiamo quindi Than Tou, che nei giorni della nostra permanenza nello stato Chin ritornerà al villaggio che ha lasciato in gioventù, e dove vive ancora l’anziana madre.

Venerdì 18 ottobre

Alle 7, puntuali siamo nella hall in attesa di Aung, la guida che ci accompagnerà in questo nostro giro nello stato Chin. Passano pochi minuti e di fronte all’hotel si ferma una vecchia jeep Mitsubishi, residuato bellico della seconda guerra mondiale; a bordo oltre a Aung ed all’ufficiale dell’esercito che ieri era venuto all’hotel, ci sono anche il direttore dell’ MTT di Bagan e due ragazzi, l’autista e colui che si rivelerà essere meccanico ed uomo di fatica. Caricati i bagagli, saliamo nella parte posteriore, dove troviamo posto su dure panchette in legno, insieme alla gomma di scorta, alle bottiglie d’acqua e ad un contenitore con alcuni viveri. Siamo un poco scettici sulle condizioni del mezzo ma tutti si affrettano ad assicurarci che è in ottime condizioni. I nostri timori non sono infondati, il motorino d’avviamento è fuori uso; partiamo a spinta. Lasciata Bagan; costeggiamo il fiume Ayeyarwady che attraversiamo utilizzando un modernissimo ponte, l’Anawrahta Bridge, uno dei pochi esistenti. A Chauk, dove facciamo una breve sosta per fotocopiare i passaporti ed i permessi rilasciati dalle autorità, che Aung dovrà consegnare ad ogni posto di controllo della polizia, termina la strada asfaltata. Di fronte a noi le prime colline. A Kazoonma, piccolo villaggio agricolo al limitare della foresta, dove i nostri accompagnatori decidono di fare una sosta per il pranzo, la gente ci guarda stupita; non sono evidentemente molti gli occidentali che si avventurano da queste parti. Siamo ormai a ridosso della zona montagnosa, la pista si snoda sconnessa e tortuosa nella foresta pluviale. Ad uno sperduto posto di controllo situato ad un valico, da cui la vista spazia sulla foresta sottostante, ci avvisano che pochi chilometri più avanti la strada per un breve tratto dovrebbe essere impraticabile a causa di una frana. Decidiamo di proseguire per valutare la situazione; tornare indietro e seguire un altro itinerario vorrebbe dire ripercorrere quasi integralmente la strada odierna e stravolgere completamente il programma di viaggio. La frana caduta durante la stagione delle pioggie appena conclusasi si è portata via un ponte. Facciamo un sopralluogo con alcuni uomini del posto che stanno predisponendo un percorso sostitutivo; un tratturo fangoso che scende lungo un crinale fino a raggiungere il letto del torrente, per poi risalire sul versante opposto. Il passaggio anche se impegnativo, non è certamente impossibile per un mezzo a quattro ruote motrici. L’autista è titubante; veniamo così a scoprire che anche il differenziale anteriore è guasto. Abbiamo due sole ruote motrici, le posteriori. Gli uomini, una quindicina, propongono, dietro compenso di aiutarci e con l’aiuto di corde e catene, dopo aver frenato la vettura in discesa, la trainano e la spingono nel tratto in salita. Riprendiamo il viaggio, poco prima del villaggio di Saw incontriamo alcuni elefanti asiatici che con i loro conduttori stanno rientrando al villaggio dopo una giornata di lavoro. La foresta ha lasciato il posto a risaie e a corsi d’acqua sulle cui rive, mosse dal vento, ondeggiano lunghe spighe argentee. Siamo ormai a meno di due ore da Kampetlet, la meta odierna, situata ad una altitudine di circa 1600 metri. Ci arriviamo poco dopo il tramonto; l’unica guest-house del paese è al completo. Le poche camere sono occupate dal personale inviato dal ministero competente per ripristinare le strade dopo la stagione delle pioggie. E pensare che a Bagan, il direttore dell’MTT locale, mi aveva confermato che le strade erano percorribili e le camere prenotate. Aung, di sua iniziativa, decide di portarci a dormire in una abitazione privata; i proprietari sono molto ospitali e ci mettono a disposizione uno stanzone al piano superiore, dove dormiremo su stuoie e materassini adagiati sul pavimento. Un vascone di cemento posto in un angolo del cortile, colmo di acqua piovana ed una ciotola di acciaio per attingere l’acqua saranno la nostra doccia, che sfidando l’aria frizzante della sera e l’acqua gelida ci facciamo sotto un bellissimo cielo stellato. Mentre ci rechiamo a cena, Aung decide di raggiungere il posto di polizia per regolarizzare il nostro soggiorno; si aggregherà a noi appena possibile. Dopo due ore, stanchi e desiderosi di andarci a coricare, cominciamo a preoccuparci. Improvvisamente l’antidiluviano telefono a manovella del “ristorante” comincia a squillare; è Aung che ci prega di non muoverci assolutamente. Dopo poco lo vediamo arrivare, è mortificato, ci riferisce che nonostante un’ estenuante trattativa, la polizia non ci ha concesso il permesso di passare la notte presso un’abitazione privata. Dovremo recarci in un resort per turisti, posto su un altura a 5/6 chilometri da Kampetlet. Ripartiamo, la pista che conduce al resort è in condizioni disastrose e dobbiamo procedere a passo d’uomo; finalmente dopo un’ora giungiamo a destinazione.

Sabato 19 ottobre

Mi sveglio all’alba; il resort costruito in una posizione panoramica ci permette di ammirare il sorgere del sole sulla foresta pluviale che si estende sotto di noi. Mentre l’autista Than ed il suo aiutante Mau Soo cercano di riparare il blocco differenziale anteriore, con Aung ed una guida Chin che fungerà da interprete per i contatti con i locali, a piedi percorriamo la pista di ieri e ridiscendiamo verso Kampetlet. A circa metà strada ci inoltriamo nella boscaglia, siamo diretti ad un villaggio. Quando la vegetazione si dirada, di fronte a noi appare un grosso spiazzo erboso circondato da alcune capanne. Ovunque animali da cortile, cani e bambini. Aung ci invita ad avvicinarci ad un’abitazione, all’interno una donna sta tessendo al suo telaio seduta accanto al fuoco. Dal tatuaggio, degli anelli concatenati tatuati sulle guance, capiamo che appartiene ad una tribù Munn. Sopraggiungono altre donne, appartenenti alla stessa tribù. Ritornati sulla pista, proseguiamo verso Kampetlet; strada facendo abbiamo modo di incontrare altre donne tatuate, appartenenti oltre che alle tribù dei Munn, anche alle tribù dei Dine, riconoscibili per le centinaia di piccoli punti che rendono il volto molto scuro e delle tribù Makan, quest’ultime con un disegno simile ad una ragnatela. Lasciamo Kampetlet e scendiamo verso il fondovalle, percorrendo a ritroso, fino al villaggio di Saw, dove facciamo riparare una gomma forata, la pista sassosa e polverosa che si snoda sul fianco della montagna tra alberi di tek e canne di bambù. Proseguiamo verso Kangyi; la pista polverosa, fiancheggiata da risaie terrazzate, segue ora il corso di un fiume. Alle 16.30 siamo a Mindat; dopo aver preso possesso delle nostre camere in una graziosa guest-house privata, usciamo per visitare il villaggio. Quando Aung capisce le nostre intenzioni, ci avverte che senza la sua “compagnia”, ci è concesso percorrere solo un tratto della strada principale. Nonostante le nostre assicurazioni, non si fida di noi, – già stamane a Kampetlet gli siamo sfuggiti – ma ligi alle consegne, all’imbrunire rientriamo.

Venerdì 20 ottobre

In programma abbiamo un breve trekking nei dintorni di Mindat. Uscendo dalla guest-house, assistiamo alla processione dei monaci che stanno ritornando al monastero al termine del giro mattutino in cerca delle offerte; diversamente da altre viste in precedenza, il corteo è preceduto da due bambini vestiti con una tunica bianca che annunciano l’arrivo dei monaci battendo ritmicamente su piccoli gong. Scendiamo per un sentiero lungo il fianco della collina fino a raggiungere un gruppo di capanne; Aung con l’aiuto di una guida locale ci conduce presso l’abitazione di un uomo appartenente ad una tribù Dine, che indossato l’abito tradizionale, suona per noi il flauto con il naso. E’ una usanza tuttora in vigore; quando un uomo vuole chiedere ad una donna di sposarlo, si presenta alla promessa sposa suonando un flauto con il naso. Riprendiamo la camminata, ci spostiamo ad un altro gruppo di case dove abbiamo l’opportunità di incontrare una donna appartenente alla tribù dei Thet; indossa l’abito tradizionale e sfoggia due enormi orecchini. Impressionanti sono le dimensioni dei fori nei lobi delle orecchie, attraversati da canne di bambù. Rientrati a Mindat, con il vetusto fuoristrada, raggiungiamo un villaggio poco distante, punto di partenza per un breve trekking che ci condurrà al villaggio animista di Pan Orw. Camminiamo su uno stretto sentiero che si snoda fra le montagne; foresta pluviale e piccoli appezzamenti coltivati su ripidi pendii si susseguono. Lungo il sentiero, qualche capanna isolata; vicino all’uscio di una di esse notiamo un galletto bianco impalato ed un piccolo cane morto. Ci spiegano, che entrambi sono stati sacrificati in quanto un membro della casa è malato. Arrivando al piccolo villaggio arroccato sul fianco della montagna vediamo l’area sacra che funge da cimitero; un’insieme di piccoli tavoli costruiti con pietre piatte, addossati l’uno all’altro, sotto cui sono sepolte le urne contenenti le cenere dei defunti. Poco distante, diversi pali a Y conficcati nel terreno utilizzati per i sacrifici animali. Vicino ad una capanna c’è animazione; due monaci stanno soccorrendo il padrone di casa che nella foresta è stato punto da uno scorpione. Raggiungiamo una capanna sulle cui pareti sono appesi diversi teschi di animali; è l’abitazione dello sciamano. Ci viene incontro, parla con Aung e la guida Chin, quindi inizia uno strano rituale con un uovo; dopo averlo bucato ed averci soffiato dentro, accende un piccolo fuoco su cui annerisce dei bastoncini che utilizza per tracciare strani segni sul guscio. Al termine del rituale, visti i buoni auspici avuti, ci rassicura sulla nostra salute e ci augura un buon soggiorno.

Sabato 21 ottobre

Il nostro tour nel territorio dei Chin sta per volgere al termine. Rientriamo a Bagan, per un itinerario diverso da quello percorso all’andata. Da Mindat scendiamo nuovamente a fondovalle ed imbocchiamo la strada in origine asfaltata che da Kangyi conduce a Kyun Chaung; è in pessime condizioni, un susseguirsi di buche e tratti sterrati molto polverosi in un continuo saliscendi di montagne e vallate. Lasciata la foresta pluviale, ci inoltriamo tra basse colline coltivate a riso, mais e miglio. Dopo quasi 7 ore di viaggio, impolverati e con le ossa indolenzite per i continui sobbalzi sulle scomode panche della jeep, giungiamo finalmente al fiume Ayeyarwady. Siamo nei pressi del villaggio di Kyun Chaung, punto di imbarco del ferry che in un ora di navigazione ci porterà all’attracco di Bagan a pochi metri dalla pagoda Bupaya. Il fiume, una delle più importanti vie di comunicazione birmane, è solcato da parecchie imbarcazioni; grosse chiatte scendono verso il mare con enormi tronchi di tek. Siamo in anticipo sull’orario di partenza del traghetto; dobbiamo aspettare circa un’ora che trascorriamo, unici occidentali, osservando gli usi e le abitudini di passeggeri locali, come noi in attesa di imbarcarsi.

Venerdì 22 ottobre

Lasciamo Bagan e costeggiando il fiume Ayeryawady, risaliamo verso nord attraverso risaie, campi di cotone e di arachidi. Poco prima di Kyauk Swe ci riportiamo sulla statale 1, la strada che collega Mandalay a Yangon; i lavori quasi terminati stanno trasformando la strada esistente in una superstrada con due carreggiate per senso di marcia, percorsa attualmente da biciclette, da carri trainati da bufali e da qualche rara automobile. Dopo quasi cinque ore di viaggio giungiamo a Sagaing, antica capitale del regno Shan ed oggi centro religioso che ospita decine di monasteri e conventi buddisti. Lasciata l’auto, saliamo sulla collina su cui sorgono numerosi zedi e monasteri; iniziamo la visita dalla Umin Thounzem, tempio contenente 45 statue di Buddha disposte a mezzaluna sotto un lungo colonnato, per proseguire con la vicina Soon U Ponya Shin Paya imponente pagoda del XIV° secolo da cui si gode una vista stupenda sul fiume e sulla pianura circostante. Ritorniamo sulla sponda orientale del fiume utilizzando l’Ava Bridge, ponte costruito durante l’occupazione inglese e fino a pochi anni fa l’unico ad attraversare il fiume, per portarci all’imbarcadero per Inwa, antica capitale, conosciuta anche con il nome di Ava. Noleggiati due calessi, iniziamo il giro di ciò che rimane dei monumenti della città; il Bagaya Kyaung, austero ed integro monastero, tuttora utilizzato, edificato interamente in tek nel 1800, che poggia su enormi colonne lignee; il Maha Aungmye Bonzan, monastero in mattoni e stucco fortemente danneggiato dal terremoto del 1838 ed infine la torre di guardia di Nanmyin, l’unica parte dell’antico palazzo reale, che ha resistito al terremoto.

Sabato 23 ottobre

Mandalay, grande centro culturale e religioso, è stata l’ultima capitale birmana prima dell’arrivo degli inglesi. Iniziamo a conoscere la città, con la visita ad un laboratorio orafo, in cui manualmente, utilizzando martelli di legno vengono prodotte le sottilissime lamine d’oro che i fedeli applicano alle statue di Buddha. Alle 8.30, raggiungiamo la zona portuale da cui partono le barche che fanno servizio per Mingun; vista l’irrisoria differenza di prezzo, decidiamo di noleggiare un’imbarcazione tutta per noi, così da non sottostare a vincoli d’orario. Risaliamo l’Ayeryawady, qui meno ampio che a Bagan; dopo un’ora di navigazione, giungiamo a Mingun. Già da lontano vediamo specchiarsi nelle acque del fiume ciò che rimane della Mingun Paya, opera voluta alla fine del 1700 dal re Bodawpaya ed interrotta alla sua morte, quando il solo basamento era stato costruito. Quello che avrebbe dovuto essere lo zedi più alto al mondo, ben 150 metri, rimase un’opera incompiuta; il terremoto del 1838, danneggiò gravemente la base della struttura e quello che oggi rimane è poco più di un cumulo di affascinanti rovine. Restano comunque impressionanti le misure del basamento, alto circa cinquanta metri. A piedi nudi, essendo un posto sacro, saliamo sulla terrazza da cui si gode una splendida veduta sul fiume e sugli altri monumenti di Mingun, tra cui l’enorme campana pesante circa novanta tonnellate, considerata la più grande campana ancora integra esistente al mondo. Dopo esserci recati alla Settawya Paya ed alla Hsinbyume Paya, facciamo rientro a Mandalay per visitare la Mahamuni pagoda, conosciuta anche come la “grande paya”. Qui viene venerata l’immagine del Buddha di Mahamuni, statua in bronzo, ora ricoperta da uno spessore di quindici centimetri d’oro dovuto alle lamine applicate dai fedeli nel corso degli anni. Nel pomeriggio ci rechiamo ad Amarapura, antica capitale voluta dai re della dinastia Konbaung. Quasi nulla è rimasto di quel periodo, ad eccezione del vecchio ponte in tek, lungo 1200 metri e sorretto da quasi mille pali, che attraversa le acque poco profonde del lago Taungthaman. Lo percorriamo per recarci alla Kyauktawgyi Paya; al ritorno decidiamo di utilizzare una tipica imbarcazione locale, la “Hgnet”, piccola barca a remi con una caratteristica poppa a coda di rondine per goderci un magico tramonto con la vetusta struttura del ponte che si staglia nel cielo purpureo.

Domenica 24 ottobre

Alle 6 siamo in piedi per salutare Daniela e Roberto che rientrano a Yangon in auto insieme a Than Tou; domani li attende il volo per Bangkok e a seguire il successivo volo di rientro in l’Italia. Usciamo a piedi, ci rechiamo all’ufficio della Yangon Airways, dove attendiamo l’apertura degli uffici per confermare i nostri voli per Kengtung. Quindi costeggiando l’ampio fossato che circonda l’interminabile Forte di Mandalay raggiungiamo la Kuthodaw Paya, soprannominata il libro più grande del mondo; disposti intorno allo stupa principale, 729 piccoli stupa contengono ciascuno una grande lastra di marmo con inciso il Tripitaka, il canone buddista. Visitiamo altri due templi situati nei pressi; la Sandamani Paya, circondata anch’essa da tanti piccoli stupa e la Kyauktaw Paya. Nelle strade circostanti c’è aria di festa, si stanno facendo i preparativi per la festa più importante di Mandalay, durante la quale viene celebrato il Thadingyut. Palchi per gli spettacoli teatrali, ristoranti e bancarelle che vendono merce di ogni genere vengono allestiti ovunque. Assaggiati alcuni dolci tradizionali birmani, imbocchiamo una delle scalinate coperte che conducono alla sommità della Mandalay Hill; lungo la salita i piccoli templi e le numerose persone in preghiera, ci ricordano che siamo in un luogo sacro. La giornata è torrida, la foschia non ci permette di apprezzare appieno il panorama che dalla sommità della collina si ha sulla città, sulla campagna circostante e sul fiume Ayeyarwady. Nel primo pomeriggio in taxi raggiungiamo lo Zeigyo, il grande mercato coperto e visitiamo la vicina Eindawya Paya. Nei cortili interni della pagoda c’è gran fermento per la festa; mentre saltimbanchi e giostrai stanno ancora allestendo le proprie attrazioni, rustici tiro a segno in cui con un elastico si devono abbattere figurine in cartone sono presi d’assalto da ragazzi e monaci novizi.

Lunedì 25 ottobre

A piedi ritorniamo nella zona dello Zeigyo, il mercato coperto. Oltrepassata la Torre dell’orologio ci dirigiamo verso i mercati dei fiori e della frutta che si tengono nelle vie adiacenti. Sono nel pieno della loro attività, molte donne stanno facendo acquisti mentre risciò e carretti riforniscono di fiori e frutta fresca appena scaricata dai camion, le bancarelle. Alle 9,30 rientriamo in hotel; recuperati i bagagli, ci dirigiamo in taxi al nuovo e moderno aeroporto distante una cinquantina di chilometri dalla città. Non ci resta che attendere l’aereo della Yangon Airways proveniente dalla capitale che ci porterà a Kengtung. Alle 12.55, puntualissimi, decolliamo; dopo un’ora e mezza atterriamo a Kengtung, culla della cultura Khun, al centro del triangolo d’oro. Terminati i controlli dell’ufficio immigrazione, ormai unici passeggeri nel piccolo aeroporto, con una mototaxi raggiungiamo l’hotel. Abbiamo davanti a noi ancora buona parte del pomeriggio. Usciamo alla scoperta della cittadina che sorge sulle rive di un piccolo lago; è quasi deserta, per le strade pochissime persone; molti negozi sono già chiusi. Passeggiamo sul lungo lago e per il centro della città fra vecchie case coloniali risalenti ai tempi dell’occupazione inglese ed alcune paya di più recente costruzione. Saliamo sulla collina prospicente il lago su cui sorgono i monasteri di Wat In e Wat Jong Kham, entrambi molto diversi da quelli visti finora. Mentre ammiriamo le innumerevoli statue lignee di Buddha in stile khun, alcuni giovanissimi monaci novizi recitano e cantano le orazioni serali.

Martedì 26 ottobre

Mi sveglio che è ancora buio; voglio recarmi al mercato per assistere all’arrivo delle donne che dai villaggi sparsi sulle colline ed abitati da varie etnie scendono in città per vendere i loro prodotti. Alle 5.30 sono in strada, purtroppo il tempo è brutto, fa freddo. Il mercato si sta animando; da vecchi camion alcuni uomini scaricano animali macellati e merci di ogni tipo. Sulla piazza affollata, le donne sbucate dalla nebbia come fantasmi, sono sedute a terra accanto alle ceste con le merci esposte. L’atmosfera è surreale e bellissima. Rientro precipitosamente in albergo; sveglio Adriana che era rimasta a letto ed immediatamente ritorniamo al mercato. Ci muoviamo negli angusti passaggi fra le bancarelle del mercato accanto a donne di etnia Shan, Khun, Wa ed Akha, dai caratteristici copricapo adornati da vecchie monete. Ad una bancarella facciamo colazione con gli ei-kya-kwe fritti al momento. Decidiamo di cambiare programma, era nostra intenzione fare un breve trekking per visitare alcuni villaggi sulle colline circostanti, ma viste le avverse condizioni meteo ci rechiamo alla stazione degli autobus per vedere se c’è la possibilità di raggiungere Tachilek in giornata, in quanto vorremmo, ma dalle informazioni in nostro possesso non sappiamo se effettivamente fattibile, rientrare in Thailandia via terra, attraverso il posto di frontiera di Tachilek – Mae Sai. Autobus non ce ne sono, ma ci accordiamo con un ragazzo, autista di un taxi, che ha già due persone a bordo e sta cercando altri due passeggeri. Con la sua vecchia Toyota station wagon, ci accompagna all’hotel a recuperare i bagagli ed all’ufficio immigrazione per il rilascio dei permessi necessari per raggiungere Tachilek. Espletate le formalità in tempi abbastanza rapidi, possiamo partire. Nostre estemporanee compagne di viaggio sono due donne, in mezzo alle quali, sul sedile posteriore, viaggia Adriana; una cinese che supera abbondantemente il quintale e che occupa lo spazio di due passeggeri, ed un’altra donna con un bambino. Quest’ultima passerà l’intero viaggio a ruttarmi nelle orecchie mentre il figlio vomiterà per buona parte del viaggio con l’autista che senza mai fermarsi le grida di sporgere di più il bambino dal finestrino per non sporcare la fiancata dell’auto. Saranno quattro ore di viaggio indimenticabili !!!. La strada, da poco ultimata, larga e ben asfaltata è molto tortuosa; per un lungo tratto costeggia il corso di un fiume e solo nelle parti iniziale e finale attraversa vaste risaie a terrazza. Dopo aver attraversato piccoli villaggi akha e superato alcuni posti di controllo della polizia, arriviamo a Tachilek. Espletate senza troppe difficoltà, ma con una buona dose di pazienza, le lunghe formalità doganali, attraversiamo la frontiera a piedi; siamo in Thailandia.

Mercoledì 27 ottobre

Usciamo poco dopo l’alba per recarci al mercato, molto affollato ma poco interessante. Allontanandoci, vediamo nelle vie adiacenti, alcune donne Hmong venute a vendere ortaggi del proprio orto. La frontiera chiusa nella notte, è stata riaperta, molta gente attraversato il confine comincia ad affollare le strade di Mae Sai, classica cittadina di frontiera, per fare acquisti. Decidiamo di partire in autobus per Chiang Mai, dove arriviamo nel primo pomeriggio. A piedi ci muoviamo nel caos del traffico cittadino rimpiangendo la tranquillità delle città birmane; dirigendoci verso il bazar notturno notiamo la presenza di tantissimi locali, bar e ritrovi con ragazze in attesa dei turisti.

Giovedì 28 ottobre

Dopo aver noleggiato agli uffici dell’Avis una Toyota Soluna, partiamo per un breve giro verso la zona montagnosa al confine con la Birmania, dove vivono numerose etnie, quali i Karen, i Padaung, i Lahu, gli Akha. Attraverso vaste distese coltivate a riso giungiamo a Chom Thong, dove facciamo una sosta per visitare il Wat Phra Thai Si Chom Tong, tempio in stile birmano del XV° secolo; è in corso una funzione religiosa ed assistiamo alla consegna, ai monaci, delle offerte dei fedeli. Lasciata la pianura, ci dirigiamo verso il confine birmano percorrendo una larga strada di montagna, tortuosa, ma ben tenuta ed assai poco trafficata. Attraversiamo le cittadine di Hot, Mae Sariang, Mae La Noi, Khun Yuam. Alle 14, dopo aver percorso 380 chilometri, arriviamo a Mae Hong Son. Passeggiamo per le vie della piccola cittadina; ci rechiamo al mercato ed ai templi di Wat Chong Klang e di Wat Chong Kham situati entrambi sulle rive di un piccolo lago.

Venerdì 29 ottobre

In auto, partiamo per andare a visitare i villaggi Karen e Padaung situati lungo la zona di confine. Lasciata Mae Hong Son, percorriamo strette stradine di campagna fra campi terrazzati coltivati a riso e basse colline; abbiamo una cartina molto approssimativa e ad ogni bivio ci sorge il dubbio di essere sulla strada giusta. Arrivati ad un villaggio, la strada diventa una pista sconnessa e fangosa, poco oltre ci fermiamo ad uno dei tanti posti di controllo della polizia. Lasciata l’auto, proseguiamo a piedi. Dopo una breve camminata siamo al villaggio di Nai Sai. Sono le 8, il villaggio sta iniziando la sua vita di sempre. Gli uomini stanno recandosi al lavoro nei campi con i figli maschi; solo i bambini più piccoli e le bambine, anch’esse con gli anelli di metallo al collo ed alle gambe, rimangono a giocare nelle strade del villaggio. Incontriamo le prime “donne-giraffa”; alcune stanno allestendo sotto la propria abitazione le bancarelle con i souvenirs da vendere ai turisti, altre stanno tessendo ai telai. Giriamo a lungo, ci invitano a sederci e a parlare con loro. Si esprimono in inglese; pur essendo abituate alla presenza dei turisti sono molto curiose. Attraversato un piccolo corso d’acqua ci portiamo presso alcune abitazioni situate sul fianco di una collina dove vivono alcune famiglie Karen; le donne portano pesanti orecchini che allungano le orecchie a dismisura. Facciamo alcuni acquisti; senza accorgerci abbiamo passato l’intera mattinata al villaggio. Mentre ritorniamo verso l’auto, incrociamo i primi gruppetti di turisti che stanno arrivando. Risaliti in auto ci dirigiamo alle cascate di Pa Sau, immerse in una foresta lussureggiante; strada facendo visitiamo il villaggio Hmong di Pang Tong e l’enclave cinese di Mae Aw. Oltre agli stranieri non è concesso di proseguire; ritorniamo a valle percorrendo a ritroso la strada fatta in mattinata, per poi dirigerci a Pai. Ci addentriamo subito nel mercato, ancora animato; abbiamo così modo di incontrare donne appartenenti ad un altro gruppo etnico, i Lahu.

Sabato 30 ottobre

Un lungo giro ci attende. Dalle colline scendiamo l’ampia vallata costellata di piccoli villaggi fino a Mae Taeng, dove imbocchiamo la strada diretta a Fang, Mae Ai e Thatong. Proseguendo verso Mae Salong ci fermiamo in alcuni villaggi akha situati lungo la strada; visitati da moltissimi turisti, hanno ormai perso il loro fascino. La gente è tuttavia molto affabile, le donne vestite negli abiti tradizionali indossano i caratteristici copricapo adornati da vecchie monete ed hanno i denti colorati di nero. Prima di ritornare verso Chang Rai, facciamo una sosta a Mae Salong, piccolo borgo arroccato su una collina circondato da immense piantagioni di the. E’ giorno di mercato, mescolati a uomini e donne delle diverse etnie, notiamo molti volti cinesi. Ci rimettiamo in viaggio; dobbiamo fare ritorno a Chiang Mai.

Domenica 31 ottobre

E’ il nostro ultimo giorno di viaggio. Partiamo alle 7.30 e dopo un lungo ma tranquillo trasferimento in auto, utilizzando la strada n. 1, una comoda superstrada, raggiungiamo Bangkok, dopo aver percorso, in questi ultimi giorni, 1870 chilometri. Alle 16.30 siamo all’aeroporto internazionale dove provvediamo a riconsegnare l’auto; quindi espletate tutte le formalità ed imbarcati i bagagli attendiamo la partenza del volo Thai diretto a Zurigo.

di Mauro Rolando www.viaggiephoto.it

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