Anatolia in bici
Viaggio all’interno della Turchia alla scoperta di un’affacinane paese considerato sin dall’antichità un ponte tra Europa e Asia

Nella terra dei Camini di Fata

Quello che vedo è un paesaggio irreale, di quelli che appaiono solo nei sogni. Questa terra, dall’aspetto lunare è la Cappadocia, l’antica regione dell’Asia Minore situata nel cuore dell’altopiano anatolico in Turchia. La natura ha modellato il terreno: le lunghe ombre, riflesse dalle fiabesche sculture naturali, proiettano l’osservatore in un’altra dimensione. In realtà, questo fantasmagorico paesaggio si creo’ una decina di milioni d’anni fa quando i movimenti della placca eurasiatica e africana produssero intense attività vulcaniche. I maestosi vulcani, ancora attivi, l’Erciyes, l’Hasandag, entrambi sopra i 3000 metri, e il Göllüdag, eruttarono masse di fango ardente sulla regione tra Kayseri ed Aksaray. Nel corso del tempo, a modellare la spessa coltre di magma ci pensarono l’acqua, l’erosione da parte del vento e gli improvvisi cali o aumenti di temperatura. Gli strati di ceneri e pomici vulcaniche depositatesi sul suolo, si tramutarono così in valli, bosfori e nelle caratteristiche formazioni calanchive dalla forma smussata dette “camini di fata”. Queste impressionanti “ciminiere” torreggiano su campi di grano, minuscoli orti ricavati in fondo a strette valli, vigneti e frutteti. Stando alla leggenda, queste particolari rocce, con forme falliche o somiglianti a giganteschi funghi, altro non sarebbero che malvagi guerrieri, giunti da lontano, a minacciare la pace e tranquillità della regione e miracolosamente tramutati in pietra per mano d¹Allah. Altre credenze vogliono che le alte piramidi siano le dimore di fate dispettose. La Cappadocia, nel corso dei secoli è stata una terra di passaggio, razziata e invasa dai commercianti Assiri, dalla stirpe guerriera degli Ittiti, dalle truppe di Alessandro Magno, da Lidi, Turchi, Macedoni, Arabi, Frigi, Romani Persiani. A causa delle precarie condizioni atmosferiche, e per far fronte ai pericoli legati alla natura o per scappare e difendersi dai frequenti attacchi di altri popoli, le prime civiltà della Cappadocia hanno sempre cercato luoghi chiusi, nascondendosi in caverne. Così, nelle guglie di tufo sono state costruite abitazioni, palazzi, stalle, castelli, chiese rupestri, tombe e non da ultimo, fori, praticati nelle pareti, per attirare i piccioni, dagli escrementi dei quali si ricava un prezioso fertilizzante. Sotto i villaggi furono create vere e proprie città sotterranee, utilizzate solo in caso d¹emergenza All’interno di esse si apriva una fitta e intricata rete di stretti cunicoli e scale amovibili che collegavano i vari locali e piani. Tutto studiato nei minimi dettagli: cucine, depositi per il cibo, stanze, armadi, dispense, nicchie, tavoli, panche e gabinetti, stalle con mangiatoie, pozzi per l’acqua e per l’aerazione. Normalmente solo i primi due piani erano adibiti ad abitazione, mentre quelli sottostanti erano utilizzati come depositi o chiese. Nel 1963 è stata trovata la città sotterranea di Derinkuyu che poteva ospitare fino a 20.000 abitanti su una superficie di quattro kmq. Derinkuyu e Kaymakly sono alcuni dei complessi ipogei più grandi della Cappadocia. Secondo alcuni studi archeologici sembra che le parti più antiche delle città risalgano a 4000 anni fa, quando la regione era sotto il dominio dell¹Impero Ittita. Derinkuyu, con la conquista romana era diventata una vera e propria città disposta su otto piani, quattro chilometri di ampiezza e 55 metri di profondità. Un traforo lungo nove chilometri km la collegava all’insediamento sotterraneo di Kaymakly.I cunicoli, in caso di pericolo, erano sbarrati da gigantesche porte-macine alte un metro e mezzo e dallo spessore di 50 cm, che raggiungevano il ragguardevole peso di una tonnellata. L’uomo si era adattato facilmente ad utilizzare queste singolari dimore: tiepide durante l’inverno e fresche in estate.Oggigiorno, la vita troglodita è molto diminuita. La maggior parte delle abitazioni sono state abbandonate e, sola testimonianza del passato, sono le centinaia d’aperture nella roccia tufacea, ormai erosa dal tempo. L¹onirico paesaggio attirò i primi cristiani alla ricerca di spiritualità, solitudine e mistico raccoglimento. Dimora dei primi anacoreti, come San Simeone Stilita, l’intera regione con la diffusione del monachesimo bizantino (a partire dal VI) divenne ben presto cristiana, resistendo anche alla spinta araba dell’VIII secolo. La fervida fantasia degli architetti esplose in un ricco caleidoscopio di forme e volumi: nel morbido tufo furono scolpite cattedrali a tre navate, chiese a croce greca, cappellette, eremi, monasteri e conventi abbelliti da stupendi affreschi. Con la pittura murale l’arte delle chiese rupestri anatoliche raggiunse la sua massima espressione. Dopo gli elementi decorativi geometrici del periodo iconoclasta (725-842), arte imposta dagli imperatori per limitare il potere che il clero esercitava sulla popolazione, tornarono in auge figure e scene sacre, con la vita di Gesù tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Con il tipico saluto ³Gulé, Gulé²,che significa ³Ridendo, Ridendo² cioè parto col sorriso per rivederti un¹altra volta ancora col sorriso, lasciamo con rammarico questa sublime regione e i loro cordialissimi abitanti.

ALLA RICERCA DELL’ARCA

Nel Kurdistan scorrono i biblici fiumi del Tigri e dell¹Eufrate, sulle cui sponde si divulgò la civiltà babilonese; ma anche la Bibbia collocava in questa regiona l’Eden, il paradiso terrestre. Questo vasto territorio, grande una volta e mezzo l¹Italia, si estende a settentrione dal massiccio dell¹Ararat fino al Mar Nero, ad occidente giunge fino al Mediterraneo, a sud al Golfo Persico e ad Oriente include i monti Zagros. La maggior parte del territorio curdo (194.000 kmq) si trova in Turchia, seguito dall¹Iran dall¹Irak e dalla Siria ed è formato prevalentemente da montagne, profonde valli e fertili altipiani. Terra abitata da quattro millenni dai curdi, un popolo fiero attaccato alla propria terra e alle proprie tradizioni, che conserva con orgoglio una grande coscienza nazionale e una profonda unità culturale e sociale. I curdi sono un popolo di origine indoeuropea appartenenti al gruppo linguistico indoiranico convertiti alla religione musulmana sunnita nel settimo secolo dopo Cristo. La storia dei curdi è segnata da sanguinose guerre e forti repressioni. Il Kurdistan non lo si trova più nelle carte geografiche, la ³Terra dei Kurdi², traduzione letterale della parola, non appartiene più ai curdi, ma è un territorio stretto in una soffocante morsa fra Turchia, Iran, Iraq, Siria ed Armenia. Questa parte di Anatolia, così lontana e remota, con un patrimonio storico ed artistico eccezionale, ha costituito l¹entusiasmante inizio di una pedalata che ci ha portato ad entrare nel cuore della ³Terra dei Kurdi². L¹incanto di questa terra prende la forma dei suoi castelli. Il complesso monumentale di Ishak Pasha Sarayi, arroccato in una posizione molto suggestiva a pochi chilometri da Dogubayazid, fu costruito nel corso del Œ700 come residenza estiva di un emiro curdo. Il suo aspetto scenografico riporta alla mente i racconti arabi delle ³Mille e una Notte²: nelle sue mura si nasconde un passato ricco di memorie, in cui storia e leggenda andavano di pari passo. A raccontare il lustro di questo lontano passato, oggi restano le sue mura, le alte torri rivestite di maiolica, le stanze, la moschea, la sala delle udienze e l’harem. Il bagliore rosseggiante del tramonto fa spiccare ancora di più l¹Ishak Pasha Sarayi, che sembra montare la guardia alla pianura sottostante, dove in un brulicare di attività commerciali vi è adagiata la fervida Dogubayazid, la città turca più orientale, vicina al confine con l’Iran. Il giorno seguente, stregati dall¹aspra bellezza del paesaggio, decidiamo di pedalare ai piedi del Monte dell¹Arca: l¹Ararat. Una bella strada asfaltata corre ai suoi piedi raggiungendo in direzione sud-est il confino turco-iraniano e ad est il confine armeno. L¹imponente massiccio vulcanico del Monte Ararat ci lascia senza parole. Visto così da vicino sembra ancora più possente. Una fitta coltre di nuvole copre la sua cima. Agri Dagi, è il nome in turco di due montagne, il Piccolo Ararat (3,925 m) e il Grande Ararat (5,165 m). Uno squarcio nel cielo e intravediamo la montagna, che sembra riempire il cielo, elevarsi in tutta la sua maestosità sopra le nostre teste. Al Diluvio Universale è immancabilmente associata l’immagine dell’Arca di Noé. La ricerca della prova storica del biblico vascello ebbe inizio già nel medioevo. Lasciamo Dogubayazid e la sua cordialissima popolazione continuando il nostro viaggio in uno scenario lavico, aspro e suggestivo. Attraversiamo gli sconfinati paesaggi della taiga anatolica, osserviamo i contadini coltivare frumento, orzo, lenticchie, pomodori, tabacco e cotone con gli antichi strumenti tramandati da secoli: l¹aratro di legno e la falce. I curdi si dedicano pure all¹allevamento del bestiame, per lo più pecore e capre, più di rado bovini. Popolo di guerrieri e pastori seminomadi, un tempo varcavano le frontiere per gli spostamenti annuali delle greggi. La delimitazione delle frontiere ha bloccato la transumanza effettuata dalle tribù curde fra Turchia ed Iraq, obbligando la popolazione a divenire sedentaria. Dopo una settantina di chilometri ci apprestiamo a superare il valico di Tendurek Gecidi a 2644 metri. La velocità diminuisce progressivamente e le violente raffiche di vento ci accompagneranno per tutta l¹ascensione. Mentre lottiamo penosamente, con una salita particolarmente faticosa, alcuni camionisti ci fanno gesti d¹incoraggiamento, mentre altri si fermano offrendoci un passaggio fino alla vetta. Incontriamo alcuni villaggi di montagna: qui il divertimento più diffuso dai bambini è il lancio di pietre utilizzando delle rudimentali fionde. Scrutando l¹orizzonte, in un attimo di respiro, intravediamo l¹enorme massa vulcanica dell¹Ararat stagliarsi in una posizione solitaria isolata sull¹altopiano. Quando giungiamo in cima al passo, gigantesche nuvole nere inghiottono il paesaggio sottostante, offuscando il vasto orizzonte in un grande vuoto grigio. La temperatura cala bruscamente e una leggera pioggia, resa insopportabile dall¹onnipresente vento, ci accompagnano fino alla fine della tappa. La lunga discesa ci permette una splendida vista su un labirinto di montagne e rocce ricoperte da un tappeto di lava nera. Decidiamo di fare una piccola deviazione a Muradyieh, alle suggestive cascate, che ogni fine settimana attirano numerosi turisti curdi in cerca di un po¹ di fresco. Il nostro viaggio si arricchisce non solo per la spettacolarità di paesaggi mozzafiato ma anche per l¹incontro con la popolazione locale. Non facciamo a tempo a posteggiare i nostri fedeli ³destrieri d¹acciaio², che subito veniamo invitati da un¹allegra famiglia curda a dividere un¹abbondante colazione: la generosità rappresenta l¹onore di un uomo. Dopo una quindicina di chilometri un intenso bagliore attraverso il brullo e sassoso paesaggio attira i nostri sguardi. Davanti a noi il lago Van: è una vera meraviglia, una perla adagiata a 1720 metri d¹altitudine, con una superficie di 3764mq e’ il più grande lago di tutta la Turchia, e del mondo contenente soda. Uno dei nostri scrittori piu’ famosi, Yasar Kemal, ha scritto riguardo al lago di Van “Se lo si guarda da una sponda all’altra non e’ il Lago di Van, ma il Mare di Van. E’ talmente grande che non lo si puo’ intendere inferiore ad un mare” e riguardo al colore dell¹acqua “Nel mondo nessun lago, nessun mare riesce ad essere cosi’ profondamente blu, quello del Lago di Van e’ un blu che fa impazzire, che non e’ possibile scorgerlo ne’ in cielo ne’ in qualche altra parte del mondo, solo questa tonalita’ di blu puo’ definire il blu del Lago di Van. Come il blu dei fiori delle pianure di Diyarbakir. Rompi un vetro, guarda all’interno dei suoi frammenti e solo li’ potresti trovare un tale blu”. Percorriamo i 165 chilometri della strada costiera che corre sulla sponda settentrionale del lago. I vulcani dello Suphan Dagi (4058 metri) e del Nemrud Dagi (non da confondere con quello omonimo dove sulla vetta si trova il mausoleo di Antioco I) si stagliano in lontananza. Il cielo, come in quasi tutta la nostra permanenza in Anatolia, è limpido e azzurro e la temperatura piacevole. Spesso a fine giornata ci immergiamo nelle turchesi acque del Van. E¹ una piacevole sensazione, specialmente dopo una giornata trascorsa pedalando. Raggiunta la cittadina di Tatvan, posta sulla sponda occidentale del lago, decidiamo di assaporare il paesaggio intraprendendo una suggestiva escursione con un singolare traghetto che trasporta sia le auto che il treno. Dopo circa sei ore di navigazione, eccoci nella città di Van, capoluogo della provincia, posta a 1727 metri di altitudine. Con un piccolo battello raggiungiamo l’isola di Akdamar, che conserva uno dei più straordinari capolavori dell’architettura armena medioevale: la solitaria chiesa della S.Croce con i suoi meravigliosi bassorilievi raffiguranti personaggi biblici, figure di animali e motivi floreali. Ma la regione è famosa anche per un singolare gatto chiamato per l¹appunto il gatto di Van, una razza dal pelo bianco con un occhio blu e uno giallo. Prima di riprendere il battello, che ci porterà nuovamente sulla terraferma, assaporiamo la calda luce del sole svanire accompagnando la nostra fantasia nell¹irreale atmosfera dei racconti arabi.

Le silenziose sentinelle della montagna incantata

Se ripenso al Mt. Nemrud, vedo la grande palla della luna piena donare pallida forma al paesaggio. L’incanto di questo luogo è qualcosa di indescrivibile, un paesaggio lunare, irreale, onirico, di grande effetto. La magica montagna, sospesa fra le nuvole, ad oltre duemila metri d’altitudine, è situata nel cuore del Kurdistan, nell¹Anatolia sud-orientale. Il “Paese dei Kurdi”, è ricco di testimonianze archeologiche, uno dei luoghi di maggiore suggestione di tutto il mondo antico, è lo stupefacente sepolcro di Antioco I Epifane. Il re megalomane di Commagenia, lo stato cuscinetto tra gli Imperi Romano e Persiano, nell’ultimo cinquantennio prima dell’era cristiana, credeva di possedere una natura divina, così, per esprimere la sua grandezza e potenza fece costruire il suo monumento funerario sulla vetta più alta della regione. Raggiungerlo non è impresa facile, sono ore di pedalata, lungo una strada che s’arrampica fino a toccare i 2150 metri d¹altitudine. La montagna, all’interno di un parco nazionale protetto dall’Unesco, si raggiunge viaggiando per decine e decine di chilometri da Adiyaman, capoluogo della provincia, o dalla città di Kahta. Noi decidiamo d’arrivarci partendo da Siverek, una cittadina che dista un¹ottantina di chilometri dal Nemrud. Lasciamo Siverek di buon’ora, pensando così di evitare la calura estiva, ma la forte insolazione è già presente alle prime ore dell’alba. Pedaliamo senza sosta in un continuo saliscendi, percorrendo un’ottima strada asfaltata poco trafficata. In un bagno di sudore, dopo un paio d’ore, raggiungiamo il bacino formato dalla diga Atatürk. Lo attraversiamo con un lento traghetto carico all’inverosimile di autovetture, bus, piccoli furgoni, motorette, uomini, donne celate sotto pesanti drappi di stoffa nera, anziani e vivaci bambini. Il caldo è veramente opprimente. Iniziamo un¹irta salita, faticosa, in quanto la strada s’inerpica per lunghi tratti su pendii ripidissimi. Il peso dei bagagli si fa sentire costringendoci a spingere la bici a mano. Saliamo bruscamente da un fianco di una montagna all’altro, raggiungendo l’ultimo villaggio. Da ora in poi, l’asfalto lascerà il posto ad un terribile ciotolato di blocchi di basalto che, sommato alla terribile pendenza del percorso, ci lascerà a fine pedalata senza forze. Oltrepassato un’interminabile labirinto di montagne e valli, arriviamo finalmente in vetta. Dopo una giornata così estenuante, decidiamo di andare a dormire presto. La notte la trascorriamo imbacuccate nel sacco a pelo sotto le stelle e una luminosa luna piena che irradia lo sconfinato paesaggio. Sveglia alle tre. Ancora assonnati, tutti in fila, uno dietro l’altro, seguendo un percorso obbligato, ci apprestiamo a percorrere a piedi un sentiero pietroso e sdrucciolevole. La breve escursione ci porterà a scoprire il sepolcro di Antioco. I turisti che quotidianamente affollano il sentiero con questa camminata notturna sono molti: il monte Nemrud è in cima alla lista delle preferenze tra le mete turistiche della Turchia. Per arrivare in vetta impieghiamo all’incirca una mezz’ora. Avvolti in un silenzio surreale, rotto solo dal rumore dei nostri passi, assaporiamo le bellezze naturali che si svelano lungo il nostro cammino. Le tenebre avvolgono completamente i profili delle montagne. Intravediamo a malapena il Tauro, una superba corona di monti che si estende a perdita d’occhio, sfociare in una miriade di tonalità di marroni. In mezzo, il Nemrud, con i suoi 2150 metri è il più alto rilievo di tutta la Mesopotania settentrionale, si erge solitario in questo scenario mozzafiato di montagne che degradano dolcemente dai suoi piedi. Terra brulla, arida, un panorama desolato eppure così struggente nella sua sconfinata immensità. Trovarsi in questo luogo di nuda bellezza, formato da un anfiteatro di montagne spoglie sospese nel nulla, e vedere il sole innalzarsi sopra il biblico Eufrate che lentamente scorre nella pianura infinita, è un’emozione intensissima. Una veduta che dà soggezione, che entusiasma e toglie il fiato. Il monumento funerario di Antioco sbuca fuori all’improvviso dietro un promontorio di forma conica. Sotto la volta scintillante del cielo notturno, una luce magica bagna il singolare tumulo incorniciato da templi gemelli dove si trovano le maestose e arcaiche statue, ferme nel tempo, a testimonianza della gloria del grande sovrano. E’ un colpo d’occhio sorprendente: le grandi statue s’alzano imponenti come silenziose sentinelle, poste a guardia dei resti mortali del re. Ogni luogo ha un suo fascino, naturale, quanto culturale. Qui l’opera dell’uomo, unita a quella creata dalla natura è spettacolare. Attorno ad un tumulo artificiale di 50 metri, dove si pensa sia sotterrata la camera funeraria con le spoglie del re e il suo tesoro, furono edificate tre grandi terrazze contenenti un pantheon di enormi statue di dei ed eroi dell’Olimpo, con i quali il re sperava di ricongiungersi dopo la morte. L’incredibile complesso monumentale, si sviluppa su oltre 26.000 metri quadrati, è tra i meglio conservati e tra i più importanti del tardo periodo ellenistico, ma è anche il meno conosciuto dell’Asia minore. Le terrazze situate ad est ed ovest, contengono cinque imponenti statue sepolcrali alte 8-9 metri, le teste, che misurano più di due metri, a causa dei numerosi sismi giacciono a terra. Prima del crollo, seduti a trono accanto a re Antioco, si trovavano divinità greco-romane, persiane come la Dea della fertilità Commagenia, Re Zeus, Dio del sole Apollo, il Dio della forza Ercole, le statue di leoni e d’aquile a custodia del luogo, simboleggiano forza e immortalità. A fianco dei templi, erano poste delle mura con dei bassorilievi con sopra incise figure raffiguranti i suoi antenati, le processioni regali dell’antica Persia e Grecia, il primo e più antico oroscopo greco sotto forma d’un leone. L’incanto di questa indimenticabile escursione, si conclude al calar del sole, con la magica visione dell’assembramento delle statue. Il tramonto tinge il cielo di tonalità violacee, ammantando lo scenario di montagne e rocce. Il canto e i balli di alcuni turisti curdi offrono echi del passato, regalando un’atmosfera misteriosa che neanche l’intenso viavai dei turisti riescono a cancellare. Si respira una sensazione particolare, magnetica, resa ancora più evidente dallo scenario metafisico di cui l’intero complesso funerario è circondato. Lasciamo questo idilliaco luogo, portandoci appresso un’altro memorabile ricordo, in una terra che affascina a prima vista per chi ha la fortuna di compiervi un viaggio.

AUTORE: Alessaandra Meniconzi

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